Nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2012, scompare un uomo: Vito Semeraro. Un bancario con un divorzio alle spalle, che ha a suo carico numerose denunce per violenza familiare ai danni della moglie Carla. Da lei ha avuto tre figli, Nicola, Rosa e la piccola Mara. Ma da circa quindici anni c’è anche una seconda famiglia legata a lui, quella composta da Milena e sua figlia Paola, di cui è “padre di fatto”.
L’ultima volta è stato visto alla festa di compleanno organizzata, dalla sua ex-moglie, per Mara. La prima ad allarmarsi è sua sorella Mimma che denuncia la sparizione ai carabinieri.
Gli inquirenti non trovano nulla che lasci prospettare un crimine e i giorni iniziano a passare.
Su tutto l’afa agostana di una Roma in vacanza, apparentemente popolata solo dalle urla e dalla violenza predatrice di centinaia di gabbiani.
E sono sempre i gabbiani a portare alla luce il corpo in decomposizione del Semeraro, un paio di settimane dopo, in una discarica a cielo aperto di Spinaceto, nell’estrema periferia della capitale. L’autopsia rivela che l’uomo è stato assassinato.
A questo punto, come in ogni storia noir che si rispetti, iniziano le indagini. Subito gli inquirenti puntano la loro attenzione sulla ex-moglie e sull’amante. Entrambe sono condotte in questura e interrogate senza molta gentilezza da due poliziotti provati dal caldo anomalo di quell’estate.
Via via che le pagine scorrono, al lettore appare sempre più evidente che la scrittura di Antonella Lattanzi è tutt’altro che banale, la descrizione dei personaggi e degli avvenimenti si alternano in modo vorticoso e coinvolgente. Il dolore, le passioni, le difficoltà di tutte le esistenze che hanno ruotato per anni intorno a Vito Semeraro sono analizzate e messe allo scoperto mentre la macchina della giustizia inizia a fare il suo percorso.
Un percorso che porterà a un processo e a…
Il romanzo è scritto in modo fluido e va al di là della classica storia da leggere sotto l’ombrellone. Non ci si può, difatti, non far coinvolgere nelle vicende “minime” dell’umanità protagonista di “Una storia nera”, umanità che più che vivere cerca di sopravvivere. Eppure in questo loro tentativo l’autrice è brava a inserire anche quelle domande che nella letteratura alta si usano definire “esistenziali”.
Qualche esempio?
Questo: “E le relazioni danneggiate? Gli amori danneggiati?, danneggiati non per colpa di chi si ama ma per eventi esterni, cosa succede agli amore danneggiati? Possono guarire, vero? Non è possibile che non guariranno mai.”
Oppure: “Io aspetto, è una vita che aspetto.”
Tanti punti interrogativi per tante domande, che spesso non possono avere risposta, popolano questo romanzo. Sono quelle che si fanno i protagonisti, accusati o inquisitori, e fino alle ultime pagine, pur conoscendo il nome del reo, il lettore resta incollato al libro. Non solo per conoscere la ragione di un omicidio, la sua premeditazione, ma anche per seguire i destini delle vite di Carla e dei suoi figli, di Milena e Paola, della feroce sorella Mimma, che alla fine del racconto sono diventati quasi dei vecchi amici che si stenta a lasciare. Certo da non dimenticare.
In occasione di un incontro coi blogger, abbiamo posto qualche domanda a Antonella Lattanzi
Quello che ho apprezzato di più è stato il non partire dall’atto violento in sé , ma il far vedere le conseguenze dell’onda lunga che la violenza famigliare ha e che ricadono su tutti i componenti della famiglia.
Perché alla fine, tutti i personaggi che racconti, sono tutti personaggi che si sono in qualche modo persi.
Sono tutti personaggi che sono vittime di un imprinting di violenza. I figli lottano disperatamente per essere altro dai genitori, ma alla fine soccombono sotto i ruoli che sono stati inventati per loro dai genitori. Sono alla fine tutti vittime e tutti carnefici. Io ho tentato di creare personaggi che non fossero solo positivi o solo negativi, anche Vito, che è l’orco per eccellenza, è una persona che viene considerata stimabile all’esterno. Non ha mai picchiato i figli, ama molto la sua amante, quindi anche il suo personaggio ha delle zone di luce.
Quindi, nessun personaggio è interamente positivo o negativo, ma sono tutti tarati,danneggiati da questa violenza che li ha pervasi da quando sono nati.
Mi interessava creare un racconto poliedrico, con tante voci, ognuna delle quali aveva la sua versione, evitando la presenza di un narratore onnisciente che poteva ricostruire la verità così come era accaduta. Volevo fosse indispensabile leggere le varie versioni dei personaggi per andare avanti e aggiungere di volta in volta un nuovo pezzo di verità. Ho lavorato molto sulla trama per riuscire a creare la giusta tensione e per fare in modo che non venisse mai ripetuta la stessa informazione e che, come un vero noir, ci fosse sempre qualcosa di nuovo
Quanta importanza hanno le ambientazioni nei tuoi romanzi?
Sono importanti perché cerco sempre di scrivere di luoghi che conosco. Bari è la mia città d’origine, ma vivo a Roma ormai da molti anni e la conosco bene. Per me le città nei romanzi sono importantissime. Descrivo di luoghi precisi dove ti puoi riconoscere e che diventano parte della trama e non solo contorno. Qui c’è il caldo dell’estate romana, contrapposto al freddo che avvolge il processo. I gabbiani poi sono il simbolo di una Roma nera che incombe sui personaggi.
Lavori anche con sceneggiatrice, e c’è già in progetto un film tratto da “Una storia nera” . Non temi che un film tratto dal libro possa essere meno bello del libro stesso? Che possa cambiare troppo rispetto all’originale?
E’ la prima volta che pensano di fare un film tratto da un mio libro e il progetto mi incuriosisce molto. Sinceramente mi piace l’idea che possa cambiare qualcosa, cioè che un regista veda dentro questa storia qualcosa che io non ho visto. Non sono gelosa del mio romanzo ma anzi molto curiosa di vedere cosa si possa scegliere di eliminare o rivedere. Sarò comunque co-sceneggiatrice.