Un uomo alla ricerca della sua unicità tra i ghiacci – Intervista a Valerio Varesi – Il labirinto di ghiaccio

È recentissima l’uscita de Il labirinto di ghiaccio che Valerio Varesi ha pubblicato con Mondadori (Collana Omnibus, ottobre 2023, pagine 228). Un noir a pieno titolo dall’ambientazione estrema, le viscere di un ghiacciaio, in cui presente e passato del protagonista finiscono per annodare drammatiche relazioni, sovvertendo i suoi giorni e quelli di molti altri.

Varesi però non è scrittore a una dimensione, o a un solo colore, e dunque ci sorprende ancora una volta con un romanzo che, se da un lato non manca di alcun ingrediente atto a tener desta la tensione del lettore, dall’altro si presta a una lettura a molti strati, ricco com’è d’interrogativi esistenziali e di riflessioni sulla nostra alienante attualità.

Il labirinto di ghiaccio uscì in prima veste e con il medesimo titolo giusto vent’anni fa, nel 2003, per Monte Università di Parma, nella collana Biblioteca parmigiana del Novecento. 
Questa nuova edizione, da te profondamente rivista e integrata, sotto quali aspetti differisce dalla prima e, soprattutto, condivide con quella la medesima identità di visione?
La motivazione di fondo è rimasta la stessa, ma alcune tematiche sono state aggiunte e altre approfondite. Una su tutte: il cambiamento climatico di cui vent’anni fa si parlava limitatamente a una nicchia tra scienziati ed ecologisti. Il romanzo si svolge su un ghiacciaio e si sa che si tratta forse dell’ambiente più sensibile al riscaldamento globale. Non potevo eludere questo aspetto oggi attualissimo. Oltre a ciò, ho lavorato a una revisione stilistica plasmando la scrittura e adeguandola al mio sentire odierno. Tuttavia, questo è un libro che esce dal mio profondo e quello non è cambiato.

Giornalista per sempre, tu molto spesso trovi la prima scintilla delle tue storie nella lettura di notizie curiose: in questo caso, l’hai raccontato in una recente intervista a Repubblica, è stato il ritrovamento, al confine con le alpi austriache, di alcuni cunicoli all’interno di un ghiacciaio collassato. Dati scarni che tu hai vividamente arricchito arrivando a dettagliare lo sforzo e l’abilità costruttiva del protagonista a ogni singolo, sofferto passaggio e avvalendosi di semplici, quasi rudimentali strumenti. Cunicoli, camere, reticoli, la colonna cava da cui l’uomo prende un po’ di luce naturale, parrebbero implicare le competenze di un ingegnere minerario… 
Non posso quindi esimermi dal chiederti, visto che ogni lettore vorrà saperlo, quale approfondita attività di documentazione abbia richiesto una descrizione così capillare e credibile della costruzione del labirinto.
Sono partito dalla mia conoscenza della montagna e dei ghiacciai in gran parte appresa da letture e testimonianze. Per anni mi sono occupato di ambiente nei giornali e sono un frequentatore delle Alpi. Il resto, il labirinto e la sua costruzione, l’ho interamente inventato. In un certo senso è un’oggettivazione del mio pensiero. Ne è uscita quella che a mio parere è una costruzione inespugnabile che si difende non usando mura, portoni o fossati, ma smarrendo gli intrusi/aggressori. E’ l’angoscia di perdersi, di smarrire la via e di non riconoscere più il mondo attorno a noi, ad annientare con più crudeltà.  

Lo sveli fin dalle prime battute, il protagonista si lascia alle spalle agi e successi ma anche azioni nefande. Eppure a spingerlo tra i ghiacci sembra, più del rimorso o della paura della punizione, un anelito di solitudine estrema e, al contempo, la volontà di affermarsi come l’unico in grado di domare l’inospitalità di quell’ambiente fino a farne la propria dimora.
Tu scrivi: «Avevo scelto di vivere sfidando l’impossibile per essere il solo, il primitivo, l’uomo che lotta e strappa la vita giorno per giorno». Mi sembra sia questo il motore più autentico della sua fuga…
Esattamente. Il protagonista fugge soprattutto perché si accorge di essere una maschera nel mondo in cui aveva vissuto finora. Cerca quindi se stesso spogliandosi di un ruolo inautentico. Al tempo stesso fugge dalla massificazione. Vuole compiere un’impresa unica e quindi sentirsi altrettanto unico. Il labirinto è il tentativo di realizzare qualcosa di assolutamente originale e mai costruito. Inoltre desidera riappropriarsi della realtà, avere un contatto diretto con le cose perché il mondo d’oggi è caratterizzato da una continua mediazione che allontana l’uomo non solo dalla natura, ma dalla essenza delle cose. Apprendiamo tutto attraverso uno schermo. Delle cose non abbiamo più esperienza, ma solo un’informazione. Il ghiacciaio per lui era un’immagine presa da internet che, per quanto accurata e precisa, non è come essere sul ghiaccio. Al contrario il protagonista desidera un corpo a corpo con il ghiacciaio. Vuole camminarci sopra, sentirne l’alito gelido, osservare i suoi colori e sbirciare dentro i crepacci.

Ogni giorno che l’uomo trascorre all’interno della sua nuova dimora di ghiaccio, è una sfida agli umani limiti. Fisici ed emotivi. Nulla può essere lasciato al caso, il minimo errore può rivelarsi fatale. Una inebriante battaglia che sembra nutrire ogni istante di più l’orgoglio della sua unicità, e trasformarlo ai suoi stessi occhi in un superuomo. Tu sei laureato in filosofia e non hai mai nascosto il persistere della tua passione per lo studio del pensiero umano.
Qui appunto, mi pare che dalla personalità del tuo protagonista riverberi il pensiero di Nietzsche, certo, ma anche lo stilema dissacrante di Max Stirner… 
C’è un riverbero di filosofia nel protagonista. Un po’ di superomismo nicciano e l’assolo solipsistico di Stirner. Credo che il nostro mondo abbia esaltato oltremodo l’individualismo votato all’affermazione di sé attraverso la costruzione della propria immagine e l’ambizione al palcoscenico mediante i mezzi di comunicazione o il denaro. Ma il mio protagonista non è interessato a questo tipo di affermazione, derivata dall’economia mercantile dove l’immagine di sé diventa essa stessa merce. La sua ricerca non è rivolta agli altri, ma principalmente a se stesso. Sottoponendosi a quella che può essere considerata un’ordalia, cerca la conoscenza del sé socratico che non ha mai avuto o aveva smarrito. 

Il tuo protagonista trascorre i suoi giorni in una immersione totale nella natura che lui stesso ha domato,  fino ad abbracciare un redivivo paganesimo. Mano a mano però, che la lotta per la sopravvivenza nel ghiacciaio fiacca la sua energia, si fa strada in lui un nuovo sentire che lo porta a costruire una sorta di cappella e a popolarla di immagini scolpite di Cristo in croce.  Rappresentazioni in forma autenticamente patiens, ove la sofferenza dell’uomo scolpisce la sofferenza di Dio, in una fraternità mai così sentita.
Quale veste assume dunque quella sua nuova religiosità, pagana o cristiana?
L’ostilità dell’ambiente in cui vive, quel mettersi a nudo di fronte a prove estreme, fa maturare in lui una spiritualità che non pensava di possedere. E’ una delle trasformazioni che la sua nuova vita gli procura. Non si può dire che è una conversione, ma per la prima volta arriva a capire la trascendenza. Apprende che la realtà può essere anche altro da affari e scambio di merci. Così pensa un po’ confusamente a un mondo fatto di solo pensiero indotto dall’infinitezza del cielo e dei monti che osserva ogni giorno. Finisce per sentire l’esigenza di dare forma a quell’idea così astratta e nuova per lui. Di concretizzarla scolpendo il legno. Ne escono fuori dei visi di Cristo via via più accurati e precisi come in uno sviluppo fotografico. E quando trova una scaglia di specchio riuscendo a riflettervisi, si scoprirà del tutto cambiato ma straordinariamente somigliante alle sue sculture. Stessa sofferenza, stessa lacerante ricerca dell’umano.

Dopo la quiete quasi dormiente dell’inverno, però, il ghiacciaio rivela una verità sconcertante: nulla di perenne esiste, neppure nelle sue immani distese. Il riscaldamento globale le ha trasformate in masse mutevoli, destinate a collassare e a inghiottire quel che incontrano sul loro cammino. Ed ecco apparire nei cunicoli crepe e fenditure, annunciate da rantoli e schianti. La lotta dell’uomo assume così contorni inquietanti e sembra preludere a una inesorabile sconfitta.
La tua denuncia contro un «progresso irriflessivo e stupido» si alza categorica dalle pagine del romanzo… 
L’umanità sembra allegramente marciare con stolida determinazione verso l’estinzione tra inquinamento, guerre e minaccia nucleare. Avremmo la possibilità di arrestare questa corsa verso il burrone, ma non lo facciamo per meschini interessi economici. Purtroppo l’umanità al fondo non è evoluta, ma è rimasta identica a se stessa: la lotta per il predominio, per il territorio, per l’interesse economico, per l’imposizione di un tipo di cultura o religione. E’ un comportamento che condividiamo con gli animali. La differenza è che questi ultimi si pongono dei limiti. Il lupo non vuole tutta la montagna, ma un suo spazio vitale, né vuole mangiarsi tutte le prede sulla terra, gli basta sfamarsi. L’uomo no, non si pone dei limiti.

La dimora di ghiaccio però è minacciata anche da altre incursioni ostili: un visitatore delle vette che sembra possedere un’identica, consumata dimestichezza di quei luoghi, più tardi un drappello di esploratori, perfino un cane che risale i cunicoli e arriva a fronteggiare il protagonista. Il suo dominio finora incontrastato vacilla, la leadership messa in discussione: la difesa a oltranza del labirinto diventa la salvaguardia di se stesso, vero?
E’ la salvaguardia della sua unicità e del suo spazio esclusivo. Il protagonista desidera restare al riparo dall’invadenza del mondo, ma non rinuncia a interagire con esso perturbandolo con missive e atti che lo sconvolgono e talora sconfinano in una specie di eco-terrorismo

In un anelito di solitudine estrema l’uomo è fuggito dal cosiddetto contesto civile, eppure è ben deciso a mantenere un osservatorio sul mondo, diretto sul microcosmo rappresentato dal paese di fondovalle e indiretto attraverso le notizie radiotelevisive. Qualche incursione notturna in paese, una piccola radio che lo ha accompagnato nella fuga, perfino il televisore di una baita deserta, gli permettono di sapere o di immaginare. La sua solitudine deve restare inviolata, ma lui può invadere le vite degli altri. E, soprattutto, deve continuare a far parlare di sé.
Uomo del nostro tempo, deve apparire per esistere…
E’ la cifra dell’oggi. Incidere sulla realtà restando nascosti. Come il potere della finanza, ubiquo e senza volto che tuttavia, come un misterioso Zeus, lancia disgrazie e fa profezie da una parte di mondo che ci appare sconosciuta. Da dove arrivano i licenziamenti con un messaggio telefonico o con una mail, terribili quanto oscure sentenze emanate da entità munite di una sigla ma prive di un viso e di qualsiasi sembianza? Il protagonista assume questo ruolo di angelo o demone annunciatore privo di connotati.

9. Vorrei chiudere questa intervista menzionando il vibrante colore che tu conferisci all’ambiente montano. Una nomenclatura, di immaginazione ma sempre affettuosa, che tu regali agli elementi orografici che cingono il ghiacciaio le rocce Damigelle, la cima degli Angeli, l’ago del Diavolo, la croda Nera e un’attenzione più che partecipe alle note che ne orchestrano la colonna sonora il do cupo del maestrale, il canto in falsetto dello scirocco, il sussurro della brezza polare, il coro rabbioso del libeccio – paiono rivelare molto del tuo sconfinato amore per la montagna…
Si tratta di toponimi presi dai miei soggiorni montani tra la Valle d’Aosta e le dolomiti. Qualcuno viene anche dall’alto Appennino. Tutti hanno un qualcosa di poetico, direi di lirico. Dietro a queste denominazioni c’è sempre una storia. C’è il trascorso di generazioni a cui le montagne eterne hanno assistito.

A nome di MilanoNera, ringrazio Valerio Varesi per la generosità del suo tempo e delle sue risposte illuminanti. Lo ringrazio soprattutto per aver offerto ai lettori un romanzo profondo che, senza trascurare un intrattenimento di intelligente suspense, induce a una più che necessaria riflessione sugli assillanti interrogativi della nostra alienante attualità. 

Giusy Giulianini

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