Qualcuno nell’ombra: Viaggio nel thrilling letterario e cinematografico (2/3)

[La prima puntata di questo saggio]
Vediamo ora dal punto di vista tecnico e di metodo quali siano i punti di contatto nello sviluppo di una storia thrilling sullo schermo e sulla carta:

1-Descrivere solo quello che si vede

Nella sceneggiatura viene rappresentato solo ciò lo spettatore vede in una determinata scena, dall’ambiente ai paesaggi, fino al dialogo dei personaggi, e ciò è ovvio e coerente con l’essenza del cinema, dove non si può vedere cosa pensino i personaggi, ma al massimo lo si può intuire (soggettivamente) da reazioni caratteriali, espressioni facciali, tic, comportamenti prevedibili o meno e così via. Il racconto o il romanzo non hanno, altrettanto ovviamente, queste limitazioni. Però… Però spesso nelle storie thrilling i personaggi celano segreti, misteri inconfessabili, a volte un’altra identità, che, se venissero svelati, toglierebbero alla trama gran parte dell’interesse che può provare il lettore. Ecco quindi la necessità di adottare anche sulla carta una tecnica “cinematografica”, esponendo solo i comportamenti dei personaggi, modulandone espressioni, toni di voce, reazioni, ovvero tutto ciò che permetta al lettore di sospettare di loro o meno.

2-La causa scatenante della storia ed i flash-back

Non di rado una trama thrilling è basata su un personaggio che agisce sotto l’impulso di un trauma subito tempo prima. Una situazione dolorosa, spesso familiare, una ferita inesorabile inferta ad una persona sensibile, incapace in seguito di razionalizzare quel trauma che finirà per risvegliarsi per un evento casuale ed imprevedibile ed esploderà con violenza, seguendo i canoni stilistici consolidati del genere, sia cinematografico che letterario. Nell’evoluzione della vicenda il trauma si ripropone implacabilmente nella psiche malata del personaggio che l’ha subito, ed ha un’importanza decisiva perché spesso precede (o segue) i delitti più efferati dell’assassino. In cinematografia si usano spesso i flash-back, accompagnati da effetti quali dissolvenza, commento musicale, riferimenti precisi ad anni passati, innescati da soggettive del personaggio condannato a rivivere implacabilmente quel trauma, infantile o meno, che l’ha segnato. Nella narrativa, si può tentare di ricreare la stessa situazione, trasmettendo l’inquietudine e la sofferenza che il personaggio prova dentro di sé nel rivivere quell’evento. Quindi, semplicemente, usando un carattere di stampa diverso, che collochi fisicamente la descrizione in un piano volutamente discontinuo con quello della narrazione. E ancora la gestualità o la mimica, fissata da uno scatto nervoso di un muscolo o due pupille sbarrate, di chi riviva con angoscia quei momenti, o riferimenti temporali come brani di canzoni alla radio, titoli di giornali e immagini di trasmissioni televisive in bianco e nero, o ancora luoghi e ambienti, fino al dettaglio del mobilio. Insomma, tutto ciò che concorre a svegliare un dolore che sembrava svanito ed invece era solo addormentato e presto chiederà, inevitabilmente, un pesante tributo di violenza.

3-La ripresa soggettiva

E’ una delle risorse offerte dalla tecnica cinematografica che viene usata più spesso per rappresentare le azioni dell’assassino, creando, come sostiene autorevolmente Dario Argento, “una complicità fra regista e spettatore. Si anticipa al pubblico che sta per avvenire qualcosa di traumatico ma non si dice cosa”. L’effetto combinato della sorpresa e dell’immagine cruenta, con il dovuto accompagnamento sonoro, genera il brivido della suspense. In altri casi, la combinazione può avere minore impatto diretto ma essere altrettanto efficace. E’ il caso di una scena giustamente famosa, fra i cultori del genere, del film di Pupi Avati “La casa dalle finestre che ridono”. Horror padano intriso di atmosfere bizzarre e surreali, ambientato negli anni ’50, pare sia stato ispirato al futuro regista da un evento traumatico della sua infanzia, accaduto nel corso della guerra: durante un bombardamento sulla cittadina emiliana in cui era sfollata la famiglia di Avati, venne scoperchiata la bara del defunto parroco, dai cui resti si scoprì che si trattava di una donna. La scena non è violentemente penetrante ma sottilmente allusivo, poiché si vede una vecchia costretta nel letto, nel buio di una stanza, canticchiare una canzoncina brasiliana, lasciando intuire la sua vera identità, collegata con la catena di delitti che attraversa il film.

Ottenere lo stesso effetto con la parola scritta è più difficile, ma non impossibile. Ad esempio, descrivendo i movimenti di un personaggio, con particolare cura sui dettagli: il battito frenetico di una palpebra, un respiro affannoso, l’eco di passi lenti su un pavimento composto da assi di legno scricchiolanti. Ecco, quanto più l’immaginazione del lettore sarà accompagnata dalle parole ad immaginare la scena soffermandosi sui dettagli, quelli su cui abbiamo volutamente insistito, tanto più sarà stato raggiunto l’effetto della soggettiva.

4-La colonna sonora

L’accompagnamento musicale diventa, a partire dall’inizio degli anni ’70, in quella fertile stagione del film thrilling di scuola italiana, che ebbe Dario Argento come riconosciuto fautore e molti, non del tutto degni, epigoni, una componente essenziale della storia, partecipando in un certo senso all’azione. Ormai sono incise, per così dire, nell’immaginario collettivo le colonne sonore di “Profondo Rosso”, originariamente affidate dal regista al compositore Giorgio Gaslini (di rinomata cultura jazzistica nonché autore del commento sonoro della serie televisiva “La porta sul buio”), ed in seguito agli allora sconosciuti Goblin, la ballata triste di Pino Donaggio che avvolge le atmosfere di “Vestito per uccidere” (“Dressed to kill”, di Brian De Palma, citato per le sue evidenti ascendenze argentiane, oltre che hitchcockiane), la voce sottile ed apparentemente incongruente di Ornella Vanoni che canta “…penso ancora ai giorni insieme a te”, mentre scorrono le immagini del truculento linciaggio e dell’agonia della “strega” Florinda Bolkan in “Non si sevizia un paperino”, le note della Messa da Requiem di Verdi che fluttuano da un teatro nascosto nel cuore di Spoleto ad una necropoli sepolta nel verde della campagna dove “L’etrusco uccide ancora”.

Recentemente, alcuni scrittori di thrilling hanno inserito nelle loro storie una vera e propria “colonna sonora” sui generis, cioè brani di canzoni, intese come strofe vere e proprie o come descrizioni della musica. La loro efficacia consiste nello sviluppare nel lettore un’associazione al ritmo della canzone, evocando atmosfere ed accompagnando la storia, quando non diventano un filo conduttore vero e proprio, come nel caso di “Almost Blue” di Carlo Lucarelli, non a caso divenuto rapidamente un film di buon successo, ritmato dall’omonimo leit motiv di Chet Baker. L’efficacia di questo accompagnamento musicale sui generis non è tuttavia paragonabile a quello puramente acustico, visto che il raggiungimento dell’effetto desiderato dipende dalla capacità del lettore di tradurre la parola scritta in suoni e fonderne il ritmo con la narrazione che gli scorre sotto gli occhi. Viceversa, al cinema, una canzone della quale possiamo anche ignorare titolo e strofe, può comunque trasmettere le sensazioni volute dal regista.

5-Il montaggio ed il ritmo della trama

Il susseguirsi frenetico di scene parallele sul piano temporale è una tecnica efficace per creare la suspense, sia nel cinema che nella narrativa, spostando la visione dello spettatore/lettore con un immaginario grandangolo a seguire contemporaneamente vicende diverse destinate a confluire in un unico finale. Immaginiamo, ad esempio, un personaggio, ripetutamente minacciato da un misterioso persecutore, che attenda ansiosamente una telefonata. Tutti gli altri personaggi, ognuno dei quali potrebbe celare l’identità del misterioso assassino, con motivi più o meno (apparentemente) validi fanno una telefonata nello stesso momento, fissato da un dettaglio: un orologio la polso, uno digitale nel cruscotto di un auto, i rintocchi di un campanile, il segnale orario alla radio, un quadrante appeso dietro il banco di un caffè. Noi non sentiremo il breve dialogo di quella telefonata, perché avviene all’interno di una cabina, o è coperto dal frastuono del traffico, o ancora perché non possiamo percepire cosa stia dicendo al suo cellulare la persona seduta in macchina, con i finestrini chiusi. Montando in sequenza le scene descritte con un primo piano dell’espressione sgomenta di chi ha sollevato il ricevitore e ascolta poche, minacciose frasi, scandite da una voce volutamente contraffatta, si ottiene una suspense alimentata dall’ambiguità della situazione. Subito dopo, il protagonista riaggancia con mano tremante, facendo sobbalzare il ricevitore sulla forcella, mentre qualcun altro chiude soddisfatto la comunicazione, sia esso seduto in macchina che in piedi nella cabina telefonica, o dentro un caffè affollato. Se il montaggio della scena, scritto o per immagini, è stato ritmato efficacemente, si otterrà l’effetto voluto, ed il lettore verrà contagiato dalla stessa inquietudine che ha avvolto lo spettatore: ambedue si sono immedesimati con le sensazioni del protagonista.

[La prima puntata di questo saggio di Enrico Luceri]

enrico luceri

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