Durante il Noir in Festival la redazione di Milano Nera ha avuto l’opportunità di porre qualche domanda a Jill Dawson, autrice de Il talento del crimine. Romanzo che abbiamo recensito qui e di cui vi consigliamo la lettura.
Il talento del crimine non è solo un lavoro di mimesi letterario ma un vero e proprio tributo a una grande scrittrice. Qual è stato il suo primo “incontro” con Patricia Highsmith e cosa l’ha spinta a scrivere un romanzo con l’autrice texana come protagonista?
Sì, è senz’altro un tributo a Patricia Highsmith, un’autrice che ammiro molto e di cui ho letto tutto tra romanzi e racconti. Ne Il talento del crimine volevo usare i suoi topos letterari; gli stalker, le ossessioni sessuali e, ovviamente, l’omicidio.
Attraverso il cinema, negli ultimi anni, c’è stato un ritorno, una rinascita dell’interesse verso le opere di Patricia Highsmith. Penso alle pellicole I due volti di gennaio e Carol ma, sei anni fa, quando ho iniziato a pensare al mio romanzo, conoscevo soltanto Il talento di Mr. Ripley nella versione cinematografica di Minghella che mi ha invogliato a leggere il libro. Mi sono resa conto che mi piaceva la sua scrittura e che mi assorbiva moltissimo. Non potevo smettere di leggere perché era molto avvincente. Nel frattempo ho scoperto che Patricia Highsmith aveva vissuto per un breve periodo in Inghilterra, un fatto che mi sembrava assolutamente incongruo per la sua personalità, per il suo tipo di scrittura. Sapevo che era originaria del Texas, che aveva abitato in altri stati americani e anche in alcune città europee come, ad esempio, in Svizzera ma non sapevo nulla del periodo inglese e questa è stata la scintilla che mi ha fatto iniziare la stesura de Il talento del crimine.
Se Patricia Highsmith fosse ancora viva, come crede giudicherebbe Il talento del crimine?
Patricia Highsmith ha la fama di essere stata una persona molto riservata. Era una persona molto difficile con una personalità complessa, ma credo che certi suoi lati fossero più dovuti alla timidezza che al fatto di essere sgradevole. Inoltre, non amava i biografi, li considerava degli avvoltoi e quindi non sarebbe molto contenta del romanzo però una piccola parte di me pensa che, avendola ritratta come una vera scrittrice di letteratura e non come una semplice giallista, questa scelta potrebbe contribuire ad ammorbidire il suo giudizio e renderla più benevola nei miei confronti.
Se definissero lei come una scrittrice di gialli, quale sarebbe la sua reazione?
È strano. Come per Patricia Highsmith anche per me il crimine è un argomento che tratto di frequente, ma io tratto casi reali. Per esempio, nel prossimo libro mi occuperò dell’assassinio della bambinaia di Lord Lucan e della misteriosa scomparsa del nobile. Un fatto realmente accaduto nel ’74, ma il mio lavoro non vuole essere un giallo classico, non ci sarà un’investigazione e nemmeno una vera e propria soluzione. In questo credo di essere molto simile a Patricia Highsmith che scrive di crimini ma non intendeva essere una giallista. Penso di capire il perché non amasse i termini giallo, thriller o cose del genere, perché è una etichetta che può generare nel lettore delle aspettative sbagliate in quanto, ripeto, non ci sono delle indagini perché entrambe siamo interessate al fatto criminoso, alla natura della violenza, specialmente alla violenza maschile, ma mai a risolvere il caso.
In cosa è debitrice e cosa detesta di Patricia Highsmith?
Cominciamo da quello che detesto. Alcuni critici hanno detto che lo stile della scrittura della Highsmith assomiglia a un mal di testa implacabile, un’emicrania che non se ne va. Leggendola ho un po’ avuto questa sensazione, lei non cercava la bellezza nella scrittura mentre per me, che sono anche poetessa, scrivere deve avere una sua bellezza. Delle molte cose che ammiro in lei, una in particolare è la capacità di comprendere e di andare a fondo- in una maniera straordinaria – alle origini del male e di soffermarsi su cosa scatena l’azione criminosa. Aveva una psicologia davvero speciale e la capacità di rendere reale tutto ciò nei suoi romanzi.
Per questo l’ammiro e in questo le devo molto.
Un’altra cosa speciale è la capacità di rendere reali le ambientazioni dei suoi romanzi. Per esempio, le sue storie sono ambientate in posti dove è stata davvero; Venezia, Roma, Marocco, Tunisia e molti altri.
Questo è un fattore importante perché dona un maggior senso di realtà, una maggiore concretezza alla storia. Anche se il lettore non sempre riesce a percepirlo ma, quando è presente, si tratta di un elemento che può fare la differenza.
Spesso si dice di scrivere solo di ciò che si conosce bene. Se così fosse, tutti gli scrittori crime dovrebbero essere, come minimo, dei criminali. Giusto?
La narrativa è senz’altro un atto di immaginazione. Lo scrittore deve avere un’immaginazione potente per poter scrivere e fare narrativa e quindi deve riuscire a inserirsi in quelli che sono i pensieri, nel mondo, nella vita e nella mentalità dei criminali. Sia negli aspetti postivi che in quelli negativi. Questo è il lavoro del romanziere. Se non si riesce a entrare in contatto con queste realtà, non funziona.
Credo che Patricia Highsmith in questo fosse magistrale nell’immaginare i pensieri, le ossessioni e le azioni di chi commette un crimine.
Nella stesura de Il talento del crimine, sono anche andata a visitare la casa in Inghilterra dove aveva soggiornato, cercando di immaginare quali fossero i sentimenti e le sensazioni che la animavano e ho cercato di immedesimarmi in lei per immaginare cosa pensava, qual era la sua vita e come sarebbe cambiata se avesse commesso un crimine.
Grazie al Noir in Festival abbiamo avuto l’opportunità di conoscere da vicino Jill Dawson, un’autrice inglese che riesce a essere allo stesso livello di Patricia Highsmith. Il talento del crimine è approdato in Italia grazie a Carbonio Editore e si tratta di un’opera molto interessante in grado di far conoscere una nuova autrice e di scoprire – o riscoprire – “il talento” della grande autrice texana.
MilanoNera ringrazia Jill Dawson che ci ha fornito anche la foto di copertina