“Danno inflitto in soddisfazione di offesa ricevuta”, così recita il Dizionario Treccani alla voce “vendetta”. Giovanni Ricciardi invece, nell’appena pubblicato La vendetta di Oreste (Fazi Editore, pagg.222), ne dà una lettura inedita e moralmente illuminante. E mi limito a questo breve cenno, per non rivelare troppo del plot.
L’Oreste del titolo di cognome fa Zarotti ed è un geometra – ma lo sarà davvero? – di origini istriane emigrato in Italia, come tanti suoi conterranei all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando l’Istria, divenuta da austriaca italiana al termine del primo conflitto, fu annessa alla Jugoslavia. Abita a Roma, Oreste, nel quartiere Giuliano-Dalmata appunto, ed è legato al commissario Ponzetti, il protagonista seriale di Giovanni Ricciardi, da antica consuetudine di stima e buona conoscenza. Per un banale incidente domestico, a poche ore dal ricovero in ospedale di sua moglie, Oreste cade e non si rialza più. E’ il figlio Marco, poco tempo dopo, a cercare il commissario e a rivelargli che negli ultimi tempi il padre sembrava angosciato dalla necessità di parlare con l’investigatore e che è lui stesso, ora, a provare la medesima urgenza per aver trovato due bizzarri oggetti nella cassaforte dei genitori: una pistola cui mancano due proiettili, di fabbricazione slava e risalente alla Seconda guerra mondiale, e una lettera d’amore indirizzata a uno sconosciuto Ulisse, priva di firma. Non una ma due pistole quindi, “una vera, l’altra di carta”. Ponzetti e Marco Zarotti intraprendono un’indagine nel passato di Oreste, recente e remoto, solidali nel comune intento di dare risposta a quei curiosi ritrovamenti, ma soprattutto di ricostruire una figura enigmatica di uomo e di padre, che il proprio privato, pieno di ombre, sembra averlo ben più nascosto che condiviso. Al commissario Ponzetti toccherà annodare il filo di una memoria più spesso taciuta che partecipata, “l’ultimo tratto di strada di Oreste, lo svelarsi del suo vero volto”, perché è lui lo specchio che Oreste aveva scelto, al posto di quelli di vetro, per potersi di nuovo guardare senza infingimenti».
Più spesso solo, perché Marco Zarotti non sempre avrà cuore di indagare i troppi segreti del padre, il commissario arriverà a svelare un mistero di eroismo e vigliaccheria, di passione amorosa e fedeltà famigliare, di odio e perdono, camminando sui medesimi passi di Oreste: in una Roma di “vialoni lunghi e anonimi costeggiati da muriccioli senza vita, senza insegne, senza botteghe”; nella valle ridente e straziata del fiume Dragogna; a Pola, “città morta” dopo l’esodo di quasi trentamila italiani, nel 1947, per la sua annessione alla Jugoslavia; nell’inferno, infine, dell’Isola Calva.
Giovanni Ricciardi è uno dei non troppi autori italiani che affranca il romanzo poliziesco dai vincoli di genere, guidandolo con mano sapiente verso i più verdi pascoli della narrativa “e basta”. Quella, per intenderci, che non si limita a raccontare un’inchiesta e sciogliere l’enigma di un crimine, ma che si addentra nei meandri dell’animo umano per penetrare, con convincente intuizione, il mistero dell’ombra che vi è racchiusa.
Forse in virtù di quell’acutezza, i suoi personaggi non prendono vita da una pedante descrizione somatica, ma piuttosto dalla raffigurazione della loro emotività, dalla registrazione puntuale dei loro stati d’animo e delle abitudini che da questi traggono costume. È l’inclinazione alla ricerca paziente e metodica – “Nelle mie storie c’è sempre una lettera. È un classico. Mi chiamano, mi presentano un testo e mi tocca fare il filologo” -, quel suo indulgere a un’affettuosa ironia, quel suo legame di geloso possesso con la figlia minore, a descrivere Ottavio Ponzetti e a proiettarlo davanti al suo pubblico, più vivido di un minuzioso ologramma.
Sullo sfondo del suo ultimo romanzo Giovanni Ricciardi, docente di lingue classiche, ridà vita a due immense figure della classicità: l’Oreste tragico, di Eschilo ed Euripide, che si fa vindice del padre Agamennone, e l’Ulisse di Omero, eroe incerto tra sete di conoscenza e dimensione affettiva.
L’autore che, fin dai titoli dei suoi primi romanzi, ci ha abituati al gioco intrigante delle citazioni – le liriche di Cesare Pavese nella raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e La canzone del sangue di Gabriele D’Annunzio – qui si rivela in Ulisse di Umberto Saba e soprattutto in quei versi: “Oggi il mio regno è quella terra di nessuno\ Il porto accende ad altri i suoi lumi\ me al largo sospinge ancora il non domato spirito\e della vita il doloroso amore”.
Un Ulisse, quello di Ricciardi, eroe quanto mai in bilico tra due mondi, la cui impresa più grande è forse la rinuncia di sé.
La vendetta di Oreste, romanzo profondo sotto ogni aspetto, getta tra l’altro ben documentata luce su una pagina ancora poco esplorata dell’immediato dopoguerra, l’esodo istriano, ed evoca con toccante realismo il tragico sentire delle popolazioni giuliane, fiumane e dalmate italiane costrette, per serbare la loro identità, ad abbandonare le terre d’origine.
Si respira cultura tra le pagine di Giovanni Ricciardi, di poesia, di musica, di architettura. Di tragedia anche, quella classica, fatta di rabbia antica, di passioni mai cessate, di svelamenti. Una cultura, però, accolta in sé sui banchi del liceo e dell’università e riproposta ora ad allievi e lettori con mano leggera e nessuno sfoggio cattedratico.
Uno dei tanti registri di questo romanzo con cui l’autore avvince il suo pubblico e lo persuade a non staccare gli occhi dalla pagina.
La vendetta di Oreste – Giovanni Ricciardi
Giusy Giulianini