Certamen 1246 – Giovanni Casella Piazza



Giovanni Casella Piazza,
Certamen 1246
BESA Editore,
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Una battaglia nella storia e nell’animo umano
Non voglio confinare entro le riduttive maglie di una etichetta di genere quest’opera di Giovanni Casella Piazza, uno dei romanzi più degni, per spessore psicologico e valore culturale, degli ultimi anni. Il suo Certamen 1246 (BESA Editore, Collana Nadir 113, gennaio 2020, pagg.574), infatti, conquista a pieno titolo il rango di romanzo storico, mettendo in scena con realismo ed empatia quell’epoca accesa di conflitti e passioni che fu la prima metà del XIII secolo, dominata dalla controversa figura di Federico II di Svevia. Non di meno però, Certamen 1246 è anche il racconto profondo e sofferto dell’animo straziato di un monaco, Ariberto da Cassago, diviso tra una fedeltà ammirata per il suo imperatore e una fede non altrettanto salda in Dio. Ed infine è un noir perché, da quel suo dilemma e dalla sua obbedienza cieca al sovrano, originano sciagure inarrestabili che si estendono come una sventurata macchia d’olio a travolgere chi più ama.
Certamen dunque, e mai titolo fu più azzeccato, è il vocabolo latino che sta, di volta in volta, a indicare un diverso dissidio. È lo scontro tra potere temporale e spirituale, dove il sovrano Federico II e il papa Innocenzo IV lottano per detenerli entrambi e piegare l’avversario alla propria plena potestas. È l’aspro contrasto tra i sostenitori dei due sovrani, ghibellini e guelfi, che in conformità alle alterne fortune di quei contendenti conquistano il governo della vita politica cittadina. È infine la battaglia interiore di Ariberto, monaco per obbligo del suo sovrano, abate disinteressato alle sorti del suo monastero, spia al soldo dell’imperatore, un giorno forse eroe per la Storia ma in eterno vigliacco per la sua coscienza.
Una figura potente quella di Ariberto, uomo imperfetto e perciò a noi vicinissimo, acceso di ideali e di passioni terrene, inadatte dunque al suo magistero, che dovrà comunque reprimere in obbedienza al suo sovrano, ricavandone in cambio amarezza e indifferenza alle sorti di chi gli è più vicino.
Lo conosciamo, Ariberto, nel primo autunno del 1268, abate di un monastero benedettino alle porte di Como, quando accoglie la visita del notaio Giuliano Aielli, latore di una curiosa richiesta da parte del patriarca di Aquileia, cui l’abbazia è soggetta: ospitare per alcuni mesi un giovane allievo dello Studium Bononiense, Ziriolo della Mora, e dividere con lui il racconto dei drammatici avvenimenti di oltre vent’anni prima, fino a quel momento protetti da un silenzio cui lo stesso patriarca all’epoca aveva vincolato Ariberto.
Il monaco accoglie la richiesta, pur non riuscendo a spiegarne la ragione visto che la lettera del patriarca che l’accompagnava è andata perduta, convinto oltretutto che il passato andrebbe taciuto giacché “Certe cose non si rievocano. Vanno lasciate tranquille, dove sono state sepolte, nell’antro nero delle brutte esperienze e delle disfatte”.
Comincia così, suo malgrado, un riluttante dialogo con il giovane Ziriolo che, anziché osservare un rispettoso ruolo di attento ma silenzioso ascoltatore, inizia a contestare l’abate e a criticarne aspramente le scelte, in virtù di un giovanile ed entusiastico idealismo. Sullo sfondo di una cittadina lacustre per nulla placida, Como, il cui primato nell’arte della tessitura la rende oggetto delle mire concupiscenti di mercanti e usurai e di quelle espansionistiche della guelfa Milano, attraverso il racconto di Ariberto al giovane Zeriolo sfilano davanti ai nostri occhi, con sorprendente e catturante realismo, oltre vent’anni di storia italiana, segnati da quattro fatali missioni di cui il monaco viene incaricato presso Federico II.
Passato e presente s’intrecciano in un racconto fluido e invitante, dove Ariberto conosce il suo imperatore e viene catturato dal suo carisma e dalla sua visione politica, non meno che dai fasti della sua corte. E, non ancora monaco, si innamora della saracena Jolanda, da lui ribattezzata Manna, il pane della vita, per lui cibo d’amore.
Nel presente intanto, in un parallelismo che ha il sapore di un oscuro disegno, Ziriolo si accende per Veronica, l’incantevole figlia di un lontano parente di Ariberto, promessa monaca per volontà della madre e forse per sua stessa vocazione.
Tra cospirazioni politiche, avidità, contese per possedimenti terrieri, amori non corrisposti, Ziriolo sparisce e si teme un rapimento. Ariberto, questa volta, saprà impegnarsi in prima persona per salvare un giovane che, nonostante le aspre critiche che ogni giorno gli rivolge, ha saputo conquistare il suo cuore?
Certamen 1246 si legge con il gusto di un romanzo epico in cui i fatti avventurosi hanno la stessa forza trascinante degli interrogativi interiori. I dubbi che lacerano l’animo di Ariberto, individuali e universali, toccano non solo il senso della sua esistenza e del suo sacrificio, ma anche i temi che da sempre angustiano l’intera umanità: volontà divina e libero arbitrio, provvidenza e fatalità, colpa e redenzione.
Le 574 pagine del romanzo scorrono senza cedimenti, catturando il lettore con vivide quinte scenografiche che lo proiettano dalle umide rive comasche alla luce abbacinante del Regno di Sicilia, fino a Ravenna, “la nobile, città di fasti imperiali e di orientali parvenze”. Forse però quel che più rimane negli occhi, e nel cuore, è quella luna quasi piena che “sparge bagliori bluastri in tutta la vallata e la superficie quieta del lago scintilla di una tenue luce azzurrognola. Le sagome dei monti appaiono nitide e scure contro il blu fondo del cielo lontano e solo pochi fuochi sono accesi”. Per quei luoghi, vibra nelle righe dell’autore lo stesso sentimento acceso che ha indotto a cantarli un grande della nostra letteratura, Alessandro Manzoni. Mentre, più oltre, la medesima luna che muore e rinasce a ogni ciclo, che “calma, solenne, maestosa passa e ritorna sui propri passi” si colora di un sentimento leopardiano per la sua indifferenza al destino dell’uomo. Una luna, infatti, che altro non fa se non “bearsi nella volta celeste”.
Sul pirotecnico proscenio allestito dall’autore si muovono figure indimenticabili, storiche e di immaginazione, le une e le altre dotate di carne e anima: accanto ai protagonisti, Ariberto e Ziriolo, il monaco Adamo, compagno e amico fraterno dell’abate, che sa vederne l’animo ben oltre la maschera esterna che egli suole indossare; il notaio Aielli che sostituisce il giovane nell’appassionato dialogo con l’abate; Manna, dal corpo caldo e sensuale, l’amore di una vita; Veronica, la donna angelicata, che appunto come figura celeste va incontro a Ziriolo, vestita di una ricca veste purpurea e adorna del manto splendente dei suoi capelli d’oro; Zanina, la servetta della locanda, che forse ama il giovane non solo per lussuria e che avrà un ruolo determinante nella vicenda.
Giovanni Casella Piazza nella stesura del suo romanzo ha vinto una sfida importante, anzi le ha vinte tutte, riuscendo a raccontare vicende a noi così lontane con un’umanità tutta moderna e con uno stile che, seppure colto e fiorito, non perde mai tensione né presa sul lettore. Perfino i brevi incisi in volgare, qualche pagina del diario di Ziriolo, si fanno apprezzare per la straordinaria abilità dell’autore nel riprodurre il linguaggio delle classi istruite dell’epoca, un saggio di latino piegato alla trasformazione del parlato.
Mi auguro che i lettori non si facciano scoraggiare dal cospicuo numero di pagine e dall’apparenza solenne dell’opera: perderebbero, in caso contrario, il piacere di penetrare nei misteri di un’epoca tra le più controverse della nostra storia e tra le pieghe di un animo in cui non è difficile riconoscersi.

Giusy Giulianini

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