Chi ama, odia – Silvina Ocampo e Bioy Casares



Silvina Ocampo , Bioy Casares
Chi ama, odia
Sur
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Un albergo sul mare rimane isolato, quasi sommerso da una tempesta di sabbia. Una giovane e bella donna, traduttrice di romanzi polizieschi, viene avvelenata con la stricnina. Tutti i villeggianti sono sospettati: la sorella che aveva litigato con la morta e il suo fidanzato che aveva una tresca con la stessa, un medico che si cura con pillole di arsenico, una vecchia dattilografa che gira per l’albergo uccidendo mosche con la paletta, un bambino inquietante che passa il tempo su un veliero insabbiato che si chiama Joseph K ecc. Si susseguono sparizioni e riapparizioni dei personaggi e anche dei gioielli rubati della poveretta, un altro tentativo di avvelenamento, false piste.
I coniugi argentini Ocampo e Casares, gravitanti nell’orbita della “scuola” di Borges (con il quale Casares aveva già scritto Sei problemi per don Isidro Parodi, in cui un barbiere omicida rinchiuso in carcere trova la soluzione con la sola arma della logica; per inciso, Borges amava i polizieschi, ma detestava l’hard boiled), nel 1946 scrissero questo romanzo breve in puro stile classico che fa pensare ad Agatha Christie e all’enigma della camera chiusa, se non addirittura a Dieci piccoli indiani, dove tutti sono sospetti, sospettano e indagano. Ovviamente la polizia fa la sua brutta figura e allora un sospettato si trasforma in investigatore, il medico, che è anche l’io narrante, colto ed erudito, vanitoso e pomposo, un po’ ridicolo come Poirot, e risolve il caso. A far salire un gradino più in alto il racconto è il gioco metaletterario e citazionista, il rosario di cliché, topoi e stereotipi esaltati, l’humour e la cordiale parodia del genere. Un esempio: un testimone ha qualcosa di “importante” da dichiarare; il nostro medico scrive: “Ascoltai con piacere la replica del commissario: ‘La prego di rimandare la rivelazione a dopo l’ora del tè’”. Per Robecchi si tratta di “un gioiellino vintage di scuola borgesiana”. Chiara, succosa e approfondita la postfazione di Francesca Lazzarato.
Fernando Rotondo

Fernando Rotondo

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