La Chimera



sebastiano vassalli
La Chimera
einaudi
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Nel raffinato iter letterario di Vassalli, La chimera, pubblicato nel 1990, è il romanzo della svolta verso una maturità piena, il libro che consacra lo scrittore, strappandolo al ruolo di fine documentarista o di biografo stravagante, e sottraendolo al legame con la narrativa di genere, cui spesso era stato relegato.

Verrebbe da chiedersi che cosa possegga la strega di Zardino rispetto al poeta pazzo Dino Campana, riesumato dalle scartoffie dei manicomi, o rispetto ai futuristi impenitenti dell’Alcova elettrica; come, nella schiera dei rifiutati e degli esclusi vassalliani, abbia potuto assurgere a simbolo di una condizione, lei, che pure è risorta dalle carte polverose di un processo e da qualche cronaca dimenticata.

Il fatto è che Antonia assomma in sé tutte le contraddizioni dell’epoca cui appartiene, di quel Seicento sospeso tra il vitalismo barocco e l’austerità controriformistica, e che incarna la femminilità proibita, quella sepolta sotto il velo del bigottismo di provincia. L’educazione di Antonia, un’ “esposta” abbandonata ancora in fasce, si compie entro le mura anguste del convento, tra punizioni corporali e rituali vuoti, fino all’arrivo nella realtà di Zardino, un villaggio della Bassa destinato a soccombere sotto l’impeto della piena. La sensualità precoce della bambina, quei capelli neri e il neo malizioso all’angolo delle labbra, la sua bellezza selvatica e quasi ferina sono in contraddizione con quell’ambiente, con il pallore del vescovo moralizzatore Bascapè, con l’ingenuità del microcosmo contadino, con le malelingue di paese, ammalate di gelosia.

Dentro questa civiltà, affogata nell’olezzo dolciastro dell’incenso, Antonia esemplifica il conflitto tra sacro e profano, prestando il volto acerbo alla Madonna ritratta nell’edicola votiva, abbandonandosi inconsapevole al ballo con i “lanzi”, infettati dall’epidemia Luterana, fino a riscoprirsi strega, per aver concesso il suo corpo all’illusione di un amore zingaro o per aver scelto di vivere la propria vita fuori dagli schemi della morale comune.

La sequenza efferata della tortura svela il volto autentico della sua condanna, perché tutte quelle procedure “facevano parte di un rituale con cui la Chiesa cattolica sfogò per secoli, su quelle sciagurate, la sua angoscia e il suo tormento del sesso; la sua paura della donna in quanto Diavolo e il suo bisogno di Diavolo”.

Il rogo finale della strega è allora l’atto di purificazione di un’intera comunità, la catarsi per riaffermare l’idea della donna come madre, di Dio o dell’uomo, soggetta alla caducità terrena, ricacciando la femmina dentro i bordelli o sotto le ceneri delle perversioni più bieche, certo ignari di averla resa immortale.

emanuele andrea spano

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