Con il mio giallo racconto il Giappone – Tommaso Scotti

Tommaso Scotti, italiano da anni trasferitosi a Tokyo, è da pochi giorni in libreria con L’ombrello dell’imperatore, Longanesi, suo libro d’esordio.
Un omicidio e un’indagine che, seguendo il passaggio di mano dell’arma del delitto, racconta molto del Giappone. Come è nata l’idea del libro?
L’idea del romanzo mi venne molti anni fa. Credo non molto tempo dopo essermi trasferito in Giappone, nel 2012. Notai subito questi ombrelli particolari, di plastica trasparente, che non avevo mai visto prima. Soprattutto mi accorsi di come fossero oggetti “di poco conto”. Un po’ usa e getta. La gente spesso li dimenticava da qualche parte, li scambiava per sbaglio (in fondo sembrano tutti uguali) o magari addirittura li rubava all’esterno di un supermercato. Così fantasticai che un ombrello del genere poteva finire un po’ in mano a chiunque. Anche all’imperatore in persona. Insomma, pensai che questo continuo passaggio di mani potesse essere una buona scusa per raccontare il Giappone moderno attraverso una serie di personaggi stereotipi. Personaggi che piano piano stavo iniziando a incontrare e conoscere. Come spesso accade, però, l’idea del romanzo rimase appunto solo un’idea fino a quando, nel 2017 circa, all’ennesimo ombrello che vedevo pensando “prima o poi ‘sto romanzo lo devo scrivere”, decisi di mettermi sotto a lavorare fino a che non l’avessi completato. È solo a quel punto che pensai di immergere la storia all’interno di un giallo. Un’impresa difficile e un po’ ambiziosa forse (si trattava quasi di scrivere due libri uno dentro l’altro, e riuscire farli convivere armoniosamente), ma mi sono sempre piaciute le sfide.


L’ispettore protagonista è un hāfu, un mezzosangue. Perché questa scelta? Per raccontare meglio le contraddizioni del paese? Perché così era più facile identificarsi nel personaggio?
Entrambe le cose. Principalmente mi serviva una scusa per avere un po’ di “attrito” tra regole e protocolli giapponesi e una mentalità occidentale, in modo da dare al lettore italiano un’idea di alcuni modi di fare e pensare. Se Nishida fosse stato al 100% giapponese, non si sarebbe potuto comportare in certi modi o fare determinate osservazioni riguardo cose che gli sarebbero risultate del tutto normali. Inoltre, come ha giustamente notato, mi sarebbe venuto più difficile immedesimarmi nel personaggio (quantomeno in uno con un ruolo così rilevante) e prima o poi avrei comunque rischiato di farlo agire o parlare in modo poco consono a un giapponese. A dirla tutta, pensando anche a una futura potenziale traduzione in giapponese, pensavo che per il pubblico locale un personaggio del genere sarebbe potuto essere molto interessante.

Ho letto la tua breve bio riportata sul libro, sbaglio o c’è un personaggio ,Matteo, che ti somiglia?
Ni. Il nome di Matteo è scelto un po’ per scherzo, perché non capita di rado che la gente si confonda e mi chiami Matteo. Inoltre, prima che nascessi pare fosse uno dei principali candidati che i miei genitori stavano considerando, ma poi mi hanno chiamato Tommaso. Comunque, se è vero che Matteo ha qualcosa in comune con me (origini romane, dottorato in una materia scientifica a Tokyo, e la passione per le arti marziali), è anche vero che abbiamo un background familiare molto diverso. E anche il naso.

Sono molti i temi affrontati nel libro: il profondo senso di onore e disonore dei giapponesi, l’omologazione, la situazione carceraria, la pena di morte, la fatica per avere una buona educazione scolastica, e gli Hikikomori, ragazzi blindati in camera davanti a un pc. . I media locali affrontano questi argomenti? C’è dibattito?
Per quanto riguarda cose come il senso di onore/disonore e l’omologazione non più di tanto, almeno che io sappia. Del resto per loro sono cose “normali”. Nel senso che sono concetti ben radicati nella cultura e non è qualcosa di cui si debba parlare. La domanda che mi sorge in questo momento è piuttosto: ma un giapponese, si sente effettivamente “omologato” in maniera forzata oppure vive l’omologazione come qualcosa di naturale di cui nemmeno si accorge? Probabilmente dipende dalla persona. Forse la maggior parte appartiene alla seconda categoria, me ce ne sono di certo molti anche nella prima.
Per quanto riguarda le situazioni carcerarie, anche in questo caso, non che io sappia. Qui però non perché sia normale, ma perché in Giappone si tende a non parlare di certe cose “scomode”. E la situazione carceraria non è proprio un argomento che credo vogliano pubblicizzare. Sulla pena di morte anche sento parlare poco. Immagino ci saranno dei gruppi di attivisti contrari, ma devo dire che in generale ho sempre riscontrato molto poco sentimento politico nei giapponesi. Che sia in compagnia di giovani o meno giovani, non mi sono quasi mai ritrovato a fare o ascoltare discorsi di politica. 
Degli hikikomori invece si sente parlare abbastanza. Che sia in televisione, sui giornali, oppure i social. Proprio non molto tempo fa ho visto un servizio di alcune persone che fanno volontariato andando a trovare questi ragazzi per fargli compagnia, cercando piano piano di farli aprire con la speranza che prima o poi tornino a fare una vita normale.

Se il tuo libro venisse tradotto in giapponese, cosa pensi direbbero i lettori di ciò che hai scritto?
È un’ottima domanda, che mi pongo spesso anche io. Come ho detto prima, uno dei motivi per cui ho reso Nishida un mezzo sangue è perché immaginavo che questo avrebbe potuto renderlo un personaggio interessante per i giapponesi. Tuttavia, è anche vero che dal romanzo escono alcuni lati negativi del Giappone, che forse a molti farebbero storcere un po’ il naso. Non a tutti però, questo è sicuro. 
La mia speranza è quella che la gente, tenendo la mente aperta, prenderebbe il romanzo per quello che è: il modo in cui un gaijin che vive là da tanto tempo vede il loro mondo. Nel bene e nel male. Se dovessi fare una scommessa, direi che alla fine il carattere particolare di Nishida, la storia in sé, così come anche l’amore per il Giappone che spero si evinca dalle pagine, avrebbero la meglio. Io mi auguro che inizino con il tradurlo intanto.

Il Giappone è sempre stato un paese molto chiuso, lo è ancora?
Estremamente. Basti dire che durante la pandemia hanno bloccato per svariati mesi gli stranieri fuori dal paese, impedendogli di rientrare. Intendo i residenti ovviamente, non i turisti, che sarebbe anche comprensibile vista la situazione. Invece i giapponesi potevano entrare e uscire normalmente (con le dovute precauzioni), ma se ad esempio io ad aprile o maggio avessi dovuto lasciare il Giappone non sarei potuto rientrare fino a data da destinarsi (sarebbe stato fine settembre o giù di lì). Non molti all’estero sanno di questa cosa, ma ad un certo punto c’erano circa 100.000 residenti stranieri bloccati fuori. Per non parlare delle storie strazianti di persone che non sono potute andare a trovare un genitore morente perché avrebbero rischiato di perdere la casa, il lavoro, e così via… Insomma sì, sono ancora chiusi, e in certe situazioni questa cosa viene fuori in maniera palese. Per carità, mica tutti sia chiaro… Ma meglio se vado alla prossima domanda.

Ed è davvero il luogo “pulito, ordinato e silenzioso” che appare?
Sì, appunto, all’apparenza. Perché il Giappone, in fondo, è un paese di apparenze. Poi dietro a tali apparenze si possono nascondere i lati più oscuri dell’uomo, ma finché la facciata è pulita non c’è problema. I giapponesi spesso preferiscono ignorare un problema e girarsi dall’altra parte piuttosto che affrontarlo. In generale, la gente tende ad evitare il confronto, di qualsiasi tipo. Più di una volta mi è capitato di assistere a litigi “invisibili” in cui una delle due parti anziché rispondere si girava da un’altra parte cercando in tutti i modi di evitare la faccia della controparte (spesso anche in modi un po’ ridicoli). Eppure, lì è così: se non ti vedo, non esisti. Uguale con i problemi. Al contrario, se ti vedo, mi tocca ammettere la tua esistenza e destabilizzare l’equilibrio in cui mi trovo con conseguenti rischi e rotture di scatole. Quindi meglio mantenere le cose come sono, giuste o sbagliate che siano, purché siano ordinate, pulite e in silenzio. Ovviamente sto parlando in linea generale, ci sono persone e persone. Ma direi che chiunque abbia vissuto in Giappone per qualche anno probabilmente confermerebbe quanto detto sopra per la maggior parte dei casi. Poi si tratta di un discorso molto complesso, difficile da riassumere in poche parole. Lo dico perché forse queste riflessioni possono suonare come delle critiche, ma in realtà sono abbastanza neutrali. Servirebbe parlare molto di più e fare analisi molto più approfondite.

Come si vive in Giappone? Cosa ti piace e cosa davvero non riesci a sopportare?
L’ordine la pulizia e il silenzio. Lo so, fa ridere dopo la risposta di prima forse, ma lo dico apposta proprio per sottolineare come le cose dipendano in fondo dai punti di vista, e come c’è sempre il rovescio della medaglia. In Giappone per alcune cose appunto, si vive benissimo. La pulizia generale di strade e luoghi pubblici, la criminalità bassissima, le persone che hanno un forte senso di collettività, l’ordine, e così via. E ancora, l’ottimo cibo, la bellissima natura, l’arte, la cultura. 
Lo scotto da pagare è quello un po’ di cui ho parlato sopra: per avere una grande efficienza bisogna mantenere un sistema molto rigido, senza eccezioni. E questo per un occidentale (per un italiano poi!) è difficile da accettare a volte.
Una cosa che invece proprio non riesco a sopportare sono alcuni modi di fare. Come ho detto sempre prima, tutti tendono ad evitare il confronto. Un esempio calzante è quello di non rispondere ai messaggi pur di non dire di no. Mi è capitato di frequentare ragazze che, di punto in bianco sparivano (non facciamo battute, dai). La cosa era per me talmente senza senso che le prime volte mi preoccupavo che potesse essere successo loro qualcosa. Invece col tempo scoprii che, anche se fino alla sera prima ti scrivevi normalmente, un giorno era capace che, senza motivo e soprattutto senza nessuna spiegazione, avrebbero semplicemente smesso di rispondere. Insomma, potevi andare a dormire con un messaggio di buonanotte con un cuoricino, e il giorno dopo non ricevere mai una risposta al successivo “buongiorno”. Magari si erano trovate un altro ragazzo, si erano stufate, chi lo sa. Questa cosa capita spesso e in qualsiasi ambito, anche il fatto semplicemente di ignorare completamente alcune domande. L’esempio delle ragazze era forse il più facile per spiegare il concetto. Anche qui, ci sarebbe da scrivere un trattato…

Quale errore non si deve fare arrivando in Giappone?
Credere che, essendo un paese moderno, tutti parlino inglese. Sono stupito che ancora non si sappia, ma tanta gente ancora pensa che i giapponesi in media parlino bene inglese. Un altro è essere maleducati, visto che già l’immagine degli stranieri non sia proprio delle migliori, ma quello vale dappertutto. 

Il caffè in lattina che beve l’ispettore, com’è?
Non lo so, io bevo quello del 7-eleven come Joe. ☺

Più volte nel libro parli della Torre di Tokyo, cosa rappresenta per la città?
È un po’ un simbolo, come la Torre Eiffel, anche se meno grande e meno “importante”. Onestamente, non saprei dire se rappresenti qualcosa. È un po’ il cuore della capitale, anche se Tokyo non è che abbia un vero e proprio centro per come lo intendiamo noi. Si trova però in una zona considerata senza dubbio “centrale” e molto ricca. Rappresenta quindi forse un po’ la città stessa. Il progresso, lo sviluppo, e il successo economico. Ad esempio, avere la vista sulla torre di Tokyo è solitamente considerata una cosa abbastanza lussuosa per un appartamento.

È reale il caso del serial killer individuato grazie alle bollette dell’elettricità?
Onestamente non ricordo se abbia o meno letto quel dettaglio da qualche parte. Il riferimento però è vagamente ispirato a un caso realmente accaduto qualche anno fa (questo). Il caso di quella che io chiamo Asami Yamada (nome inventato), è invece tristemente ispirato a un fatto reale (questo).

Cosa ti piace leggere? Hai avuto dei modelli a cui ispirarti?
Sono sempre stato uno che legge a fasi alterne. Periodi in cui leggo tanto e periodi in cui leggo poco. Sono un grande fan di Maurizio de Giovanni e in particolare del commissario Ricciardi, che però ho scoperto non molto tempo fa, dopo aver finito di scrivere il libro. Contrariamente a quanto uno potrebbe pensare infatti, il fatto che Nishida creda che si uccide quasi sempre per amore non è ispirato a Ricciardi. È proprio un caso. La fame invece l’ho aggiunta dopo, come una sorta di piccolo omaggio. Per il resto mi piacciono anche Michael Connelly, Lee Child, i maestri del thriller/poliziesco insomma. Ma ho anche amato molto classici come Furore, Il maestro e Margherita, Il fu Mattia Pascal e così via. E sì, anche Harry Potter, che lessi proprio appena uscì.

Il genere crime è il tuo preferito o era il miglior mezzo per raccontare la storia che avevi in mente?
È senz’altro uno dei miei preferiti, ma come ho appena accennato sono abbastanza onnivoro. Però sono un grande appassionato di film, soprattutto thriller e polizieschi. L’idea del giallo in realtà, come ho detto all’inizio, è venuta molto dopo. Avevo un po’ il dubbio che a raccontare la storia dell’ombrello da sola, sarebbe venuta fuori una cosa interessante sì, ma forse un po’ fine a sé stessa. Un po’ insipida, se vogliamo. Così mi sono detto “e se l’ombrello fosse rinvenuto sulla scena di un crimine?” E sono partito da lì.

Quale è stata la difficoltà più grande che hai dovuto affrontare durante la stesura del libro?
La fine! Capire chi era il morto, chi l’aveva ucciso, e perché! È stata senza dubbio la cosa più lunga e complessa. L’idea ci ha messo davvero tanto a venirmi. Per fortuna avevo già in mente tutti i vari personaggi così nel frattempo scrivevo quelli… ma “il finale”, è stato difficile.

I giapponesi leggono molto? Sai qualcosa della narrativa crime giapponese?
Che genere di libri c’è attualmente in classifica?
I giapponesi leggono abbastanza direi, anche se al momento non ho dati alla mano. Però in metro o in treno si vedono spesso persone che leggono libri di carta (anche se la maggior parte sono attaccati al cellulare o sonnecchiano). Però gente che legge ce n’è. Della narrativa crime giapponese non so molto onestamente, e non sono aggiornato sulle classifiche, ma è una cosa che mi ripromettevo comunque di guardare.

Il commissario Nishida pare bello e pronto per una seconda indagine con cui raccontare i molti altri aspetti di un paese affascinante e misterioso. Ci hai già pensato?
Ispettore, non commissario. Almeno non ancora, finché c’è Yamaguchi tra i piedi poi… Questo risponde alla domanda?

MilanoNera ringrazia Tommaso Scotti e Longanesi per la disponibilità

Cristina Aicardi

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