Dipinto nel sangue



luigi guicciardi
Dipinto nel sangue
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Modena gelida ed imbiancata dalla neve fa da cornice all’ultima avventura del commissario Cataldo, il personaggio creato dallo scrittore Luigi Guicciardi e giunto qui alla sua settimana avventura. Un Cataldo che si è evoluto, che è invecchiato rispetto alle prime avventure, diventando più saggio e forse più riflessivo.
In questa nuova storia il poliziotto si trova alle prese col misterioso omicidio di un famoso pittore, Tito Castellani, stimato da critici e galleristi, trovato massacrato all’interno dell’ascensore del palazzo in cui vive. Tutti gli inquilini dello stabile interrogati, prima dal bravo vicecommissario Muliere, braccio destro di cataldo, e poi dal commissario stesso, in modi e tempi diversi, dalle indagini potrebbero avere un motivo per uccidere. Dalla giovane moglie allo studente solitario del quarto piano, dalla colf marocchina al timido fratello della vedova, dalla segretaria “particolare” all’amico critico che scriveva l’introduzione dei suoi cataloghi.
Un romanzo scritto al tempo presente in cui Guicciardi guida il lettore nel mondo dell’arte, raccontandoci di dipinti e gallerie d’arte ma anche dei festini a luce rosse cui il pittore assassinato amava partecipare…
Stilos ha incontrato l’autore.

Come ti è venuta l’idea di ambientare questo romanzo fra gallerie d’arte, pittori, mostre, critici? Quanto lavoro di documentazione ha richiesto?
Il mondo dei pittori e delle gallerie mi ha stimolato molto, soprattutto per la possibilità di impiantarvi un’indagine su due piani, quello pubblico e quello privato. Nell’immaginario collettivo, infatti, il pittore è una figura abbastanza trasgressiva e anomala, un po’ diversa dai comuni mortali. Vive della sua ispirazione e frequenta un mondo speciale di belle donne, di modelle, di feste. L’omicidio di un pittore, quindi, come quello che apre Dipinto nel sangue, può essere sia un delitto d’odio, legato a una torbida vita privata, sia un delitto di lucro, dato che, quando un artista muore all’improvviso, le sue opere spesso aumentano di valore.
Quanto alla documentazione, è stato fondamentale stavolta – più che la consultazione di saggi o cronache come per altri libri – il contatto diretto con galleristi e pittori della mia città, che hanno colmato certe mie lacune di carattere pratico (sui compiti della segretaria di un pittore, sulle percentuali percepite da un gallerista, sul peso “venale” delle recensioni di un critico, ecc.).

Il protagonista principale del tuo libro è il commissario Cataldo. Questo è il tuo settimo romanzo con lui come protagonista. Come mai stavolta decidi di far cominciare l’indagine senza di lui? Nei primi capitoli, infatti, le redini delle indagini sono tenute dal suo fido vicecommissario Muliere…
Intanto, per una sorta… di par condicio. In Relazioni pericolose per il commissario Cataldo, infatti, l’indagine era condotta quasi interamente da Cataldo, che solo ogni tanto informava il suo vice ricoverato fin dall’inizio all’ospedale, mentre adesso le parti si sono invertite (Muliere indaga e Cataldo è assente). Ma il motivo vero è un altro: la responsabilità delle prime indagini sulle spalle di Muliere contribuisce ad approfondire e umanizzare di più il personaggio, sottraendolo per una volta alla sua condizione di minorità: Muliere può dimostrare così capacità tecniche adeguate, non arrugginite dalla subalternità a Cataldo, ma anche qualche ruvidezza di tratto, qualche comprensibile imbarazzo, che ne legittimano alla fine il sollievo al ritorno del suo capo.

Ci potrebbe essere un Cataldo senza Muliere? L’aiutante è parte del protagonista o no?
Potrebbe esserci, ma è poco probabile, data la diversità di Cataldo da altri investigatori della narrativa gialla. Mentre infatti questi ultimi hanno coi loro aiutanti o interlocutori fissi un rapporto di invariabile superiorità – in quanto questi servono anche a far risaltare di più, con la loro normalità o ottusità, le doti eccezionali del protagonista (penso alle coppie esemplari Holmes-Watson, Poirot-Hastings, Vance-Heath) – Cataldo invece ha con Muliere un rapporto umano fortissimo e a volte quasi complementare, fatto di esperienze anche drammatiche condivise, e all’interno di un più ampio gioco di squadra (col tecnico della Scientifica Zironi e il medico legale, anche lui siciliano, Turi Scarso).

Cataldo in questi anni è cambiato, ha vissuto molte esperienze, è invecchiato. Una scelta precisa. Perché?
Perché mi ha interessato sempre di più, dal secondo libro in poi, l’idea di un protagonista con un divenire sostanziale, un’evoluzione progressiva: con un vissuto personale e sentimentale, insomma, e una dimensione privata (e un passato) intrecciati alle inchieste che di volta in volta è chiamato a condurre. Credo che tutto questo permetta di imprimere al personaggio un quoziente più intenso di realismo e di attendibilità; di umanità, in definitiva. E insieme all’evoluzione di Cataldo mi ha intrigato altrettanto l’idea di una città in evoluzione e di un cambio di prospettiva, nel senso di ritrarre la mia Modena non come il Sarti di Macchiavelli, mettiamo, fa con Bologna, ma con gli occhi di un forestiero che cambia e invecchia: Cataldo, appunto, che arriva da Catania a quarant’anni, condizionato dalla nostalgia; che all’inizio si muove un po’ da estraneo, da solitario, in un’ottica non troppo coinvolta; ma che poi matura una progressiva consuetudine con la cucina, il dialetto, la gente di Modena: con quella dimensione locale, cioè, con cui deve convivere (fino, per ora, al matrimonio e alla paternità).

Quanto c’è di te nel commissario Cataldo?
Gli ho attribuito alcuni aspetti del mio carattere (la curiosità, la pazienza, certi gusti letterari e musicali), ma anche qualche sfumatura di modelli fondamentalmente inimitabili (da Maigret a Derrick, per dire). Senza scordare, peraltro, la saggia avvertenza di un Rezzori, secondo cui in letteratura non esistono filiazioni, perché siamo tutti bastardi di tutti quanti.

Ti ritieni uno scrittore di genere, il mystery. Perché? Non è un limite darsi un’etichetta?
Mystery ha il pregio di tutte le etichette, se correttamente intese (come Vini sul cartello dell’ipermercato): è una parola orientativa, che dà un’informazione di partenza. E’ ovvio, poi, che come all’Ipercoop trovi i vini in cartone e quelli DOC, così anche in narrativa, all’interno del medesimo indirizzo, la differenza la fanno ben altre cose che l’appartenenza a un “genere”, e cioè quelle che la critica chiamava forme del contenuto e forme dell’espressione, ossia la capacità di concepire una storia e poi di scriverla bene. Oggi per fortuna sono sempre di più i lettori consapevoli che non esistono generi maggiori e generi minori, ma semmai autori maggiori e autori minori, o anche minimi (o “scriventi” e scrittori, per dirla con Barthes). O forse non esistono più neanche i generi (o i generi rigidamente intesi): e allora avrebbe ragione l’umorista che osservava, tanto tempo fa, che i generi sono solo i mariti delle figlie…

paolo roversi per stilos

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