Due weekend all’insegna del giallo noir, con con la partecipazione degli autori crime più noti del nostro Paese e di volti noti dell tv.
A questo aggiungete una suggestiva piazzetta che domina il mare: ecco a voi Giallo di sera a Ortona, giunto alla seconda edizione, visto il grande successo dell’ anno precedente.
La manifestazione di terrà a Ortona (CH) in due weekend di luglio, 17/18/19 e 24/25/26.
MilanoNera vi accompagnerà con un appuntamento giornaliero a conoscere gli ospiti che interverranno.
Oggi facciamo due chiacchiere con Luca Crovi redattore alla Sergio Bonelli Editore, collaboratore con diversi quotidiani e periodici e inarrivabile e inimitabile esperto di letteratura crime.
Luca Crovi sarà sul palco di Giallo di Sera a Ortona sabato 18 luglio alle ore 19.30
I tuoi romanzi sono pietre miliari della memoria milanese. Cominciando dal primo: L’ombra del campione e via via scendendo fino all’Ultima canzone del Naviglio, è tutto un rincorrersi di miti meneghini e non soltanto. Personaggi, situazioni, ambienti, episodi realmente accaduti: ogni romanzo è un frammento di piccola e grande storia. Ma tutto ha un inizio. Anche la tua serie. Qual è stata la scintilla? Voglio dire: cosa esattamente ti ha fatto venire voglia di aprire questa grande finestra su Milano? Un oggetto, un profumo, un personaggio, un episodio, una vecchia incisione…
È nato tutto dalla richiesta di un racconto da parte di Franco Forte per l’antologia Giallo di rigore. Voleva che scrivessi una storia noir sul mondo del calcio e su quello dell’Inter in particolare. Per un po’ gli ho risposto che non ero in grado di scriverla per due motivi: perché a casa mia era tutti milanisti e poi soprattutto per il fatto che io sono acalciofilo. A me piace andare a vedere a San Siro i concerti rock non le partite. Così è successo che andando a vedere Bruce Springsteen mi è caduto l’occhio sulla scritta Stadio Meazza. E da li si è acceso tutto.
Peppin Meazza, il formidabile calciatore che ha dato il nome allo stadio milanese, si allenava lanciando palle contro le mura del carcere di San Vittore. Un dettaglio sconosciuto che sicuramente avrà mandato in estasi i lettori interisti. C’entra la fede calcistica con la decisione di farne un perno del tuo primo libro?
Mio fratello che è uno sfegatato milanista mi ha tolto il saluto per un mese dopo che ha saputo che avevo scritto un romanzo sul Peppin. Non è bastato sostenere che Meazza aveva giocato anche nel Milan a difendermi, ci è voluta la telefonata di un suo amico interista che gli ha confessato che si era commosso leggendo il libro. In realtà, io leggendo la storia di Meazza ho trovato che avesse vissuto la prima parte della sua vita di orfano e ragazzo senza quattrini in maniera molto simile a quella di mio nonno Giovanni. Il fatto che sua mamma andasse a rifornirsi di frutta e verdura all’Ortomercato dove mio nonno da bambino scaricava le cassette di frutta per guadagnare qualche soldo ha scatenato in me il desiderio di saperne di più su quel ragazzino che aveva un solo di paio di scarpe buone e che non si poteva permettere quelle per giocare a calcio. Poi ho scoperto tutte le vicende legate al cambio di nome dell’Inter e all’uso di magliette diverse durante il fascismo. E leggendo storie su Meazza mi sono imbattuto sul mistero legato alle sue prime calzature sportive che ancora oggi si possono vedere appese nel Museo che c’è a San Siro, ma anche nella vicenda dei pali rubati alla sua squadra. Infine nella leggenda legata ai suoi allenamenti in mezzo alla nebbia davanti al carcere di San Vittore. Quando la Gazzetta dello Sport recensendo L’ombra del campione ha accreditato la veridicità di quello che avevo immaginato ho capito che quello che avevo scritto funzionava davvero. E devo confessarvi che la scena in cui nel libro racconto i cannoneggiamenti di Meazza davanti al muro del Due ha convinto gli editor di Rizzoli a farmi un contratto subito prima ancora che il libro fosse finito. Mi piacerebbe vederla al cinema e devo dirvi che ha rischiato già di finire a teatro con un’idea scenica che sarebbe funzionata. Già che ci siamo posso anche confessare ai lettori che sta per arrivare un altro racconto sul Peppin nella prossima antologia di De Vincenzi. Una storia legata a un altro evento incredibile di cui è stato protagonista.
I tuo romanzi fanno venire in mente i grandi cori polifonici con ciascuna voce che porta la propria sfumatura per dare vita a una sinfonia da cui emerge il solista. Nei tuoi libri, il solista è certamente Il commissario Carlo De Vincenzi. Quando lo hai scoperto? Ho sempre amato le storie di De Angelis e trovo che siano state fra le più mature prodotte dal giallo italiano negli Anni Trenta. De Vincenzi è un personaggio maturo alle prese con piccoli casi abituali per un poliziotto e la descrizione che il suo autore fa della città di Milano è meravigliosa. Si capisce che ci aveva vissuto e tutti i luoghi che descrive sono reali. I lettori all’epoca non si accorsero che la scelta della casa del commissario in via Massena non è casuale così come la descrizione del suo luogo di lavoro in San Fedele, io ovviamente ho amplificato queste localizzazioni.
Oreste Del Buono, storico direttore della collana I gialli Mondadori, ha definito Carlo De Vincenzi, creato negli anni Venti da Augusto De Angelis: “Umanissimo come il Maigret di Simenon, romantico come il Marlowe di Chandler, intellettuale come il Vance di Van Dine, eppure caparbiamente italiano.” praticamente una strada già asfaltata per te.. Hai mantenuto tutti questi caratteri? A quale hai preferito dare la preminenza?
Ha mantenuto vivi tutti e tre gli elementi del suo carattere, permettendomi di fargli leggere Il Corriere della Sera, le infornative di polizia dell’epoca, Platone ma anche Emilio De Marchi e Arrigo Boito. Mi sono permesso di arricchire il passato di De Vincenzi legato alla prima guerra mondiale che il suo creatore aveva solo accennato. In più ho raccontato un poliziotto in un contesto reale storico, sociale e politico. De Angelis era soggetto alle normative fasciste e non poteva raccontare tutto anche se riteneva che “il giallo fosse il frutto rosso sangue dell’epoca” che stava vivendo. La polizia di Milano subì pesanti trasformazioni nel periodo che racconto e volevo evidenziarlo nelle storie. Così come interessava raccontare il rapporto fra De Vincenzi e la ligera, la criminalità milanese che popolava quartieri come il Bottonuto. Non descrivo mai fisicamente De Vincenzi nelle storie mi occupo solo della sua psicologia e del suo carattere perché voglio che i lettori se lo immaginino come vogliono loro, magari con il volto di Paolo Stoppa che lo ha interpretato in tv. Io me lo immagino minuto e scarno come mio nonno Giovanni, silenzioso, curioso e dotato di humour.
De Vincenzi si muove nella Milano fascistizzata, cupa e impoverita. Deve scoprire malviventi e assassini per affidarli alla giustizia in un’epoca in cui, per diktat del MinCulPop, non esistono né assassini né delitti (a parte quelli del regime, ma questa è un’altra storia!). Gira la città a piedi o con il tram. Ha un telefono che usa pochissimo perché è sempre in strada, ma può contare su una grande risorsa: la collaborazione dei milanesi, soprattutto delle portinaie. C’è qualcosa di tuo in questo?
Far muovere a piedi, bicicletta e tram De Vincenzi mi permette di fargli girare la città in maniera agevole. Inoltre le macchine iniziano a diffondersi proprio in quel periodo che racconto quindi erano diffuse ma un poliziotto non poteva avere una sua macchina persona, si usava quella di servizio. L’elemento delle portinaie come confidenti della polizia me lo hanno confermato molti in Questura. Le portinerie sono un elemento caratterizzante di Milano e delle sue case. E d’altra parte io aggiunto la sciura Maria Ballerini apposta nella dimora di De Vincenzi perché mi serviva un elemento umano in più nelle sue storie, una sorta di famiglia allargata sulla quale potesse contare. Per questo quando Tommaso De Lorenziis e Michele Rossi mi hanno chiesto di inserire nelle storie un elemento sentimentale, alzando un calice di vino rosso ho confessato loro che avrei messo accanto a De Vincenzi la mia bisnonna. Prima mi hanno guardato sorpresi, poi quando ho raccontato loro la sua storia si sono commossi. E così ho aggiunto un personaggio alla saga con tutto il suo bagaglio di vita ed emozioni attingendolo alla storia della mia famiglia. Poco prima di morire il mio amico Andrea G. Pinketts è venuto a trovarmi in ufficio e abbracciandomi mi ha detto: “senti ma tu la tua bisnonna non me l’hai mai presentata e tuo padre non me ne ha mai parlato”. “Per forza era la mamma di mia nonna materna”. Andrea sorridendo ha aggiunto: “avrei voluto conoscerla”. E credo che molti dei lettori la pensino come lui e come me che rimpiango ancora la sua cassoela.
Milano è la prima protagonista dei tuoi romanzi. Una città in cui tutto può accadere, tutto accade e tutto può essere cancellato con efficienza asburgica. Come un attentato che lascia sul terreno 17 morti, più due che con le bombe non c’entrano però la tragica fatalità di un colpo, partito per sbaglio quasi contemporaneamente all’esplosione, ha dato loro la dignità di vittime del terrorismo. Due episodi realmente accaduti ma dimenticati: le bombe all’inaugurazione della Fiera e l’incidente alla caserma della milizia in via Mario Pagano. Ci voleva De Vincenzi per riportarli alla memoria. Cosa ti ha spinto a riaprire questa finestra?
Quando ho iniziato a scrivere il romanzo sono venuti nell’ordine sulla pagina prima Meazza, poi De Vincenzi e poi la mia bisnonna. Intorno a loro sono venuti gli aneddoti che li riguardano e poi mentre stavo scrivendo il capitolo dedicato ai tram 1928 mi sono accorto che la mia città in quel periodo non solo aveva avuto forti trasformazioni stradali, architettoniche, sociali, culturali, artistiche ma era stata al centro per un decennio di una serie di terribili attentati che riletti oggi ci mostrano la nascita della strategia della tensione in Italia. Raccontando le bombe all’hotel Diana e quella in piazza Giulio Cesare ho cercati di mettere in evidenza il punto di vista delle vittime mai ricordate di quegli attentati. Molti lettori leggendo quelle pagine hanno pensato a piazza Fontana. Credo che i miei libri abbiano un dovere di testimonianza che permette di riscoprire il vero cuore di Milano.
I tuoi libri sono ambientati nel ’28, anno VII dell’era fascista. Fra le pagine si respira l’oppressione del regime ma anche la leggerezza delle mille vite che non hanno smesso di pensare con la propria testa. Come De Vincenzi, il commissario che indaga davvero, fuori dalle regole dettate da Mussolini. Augusto De Angelis, il suo ideatore fu perseguitato dal fascismo fino a perdere la vita. Oggi i tempi non sono più gli stessi e tuttavia molti semi di odio vengono sparsi ogni giorno. I tuoi libri oltre a parlare della nostalgia per la Milano che non c’è più, portati alla luce, con lieve ironia, fanno riscoprire tanti episodi tremendi del passato. Sono i tuoi mattoni per ricostruire la memoria?
La memoria è fondamentale. E la storia va raccontata non cambiando né le date né le fonti. Bisogna raccontarla in maniera obiettiva e questo si può farlo solo a distanza di molti anni. La storia lascia tracce incredibili da raccontare per chi le sa cercare. Io sono laureato in Filosofia Antica con Specializzazione in Storia Antica su Maro Aurelio, credo che il mio percorso universitario mi abbia facilitato molto nella mia attività recente di romanziere. E sono dovuto arrivare a cinquant’anni per poter pensare che avevo qualcosa da poter raccontare di originale sulla mia città. Come ogni ricercatore non invento nulla, raccolgo i dati e li metto in sequenza. E ovvio che la scelta di certi documenti e certe voci da un punto di vista speciale su quei tempi. Curiosamente il mio agente Marco Vigevani si è visto arrivare sul tavolo contemporaneamente il mio ciclo di De Vincenzi e M di Scurati, due modi diversi per raccontare lo stesso periodo usando le fonti. Raccontare il passato ha sempre un peso forte sul presente che viviamo e serve a non dimenticare e non cancellare quello che è accaduto.
In autunno uscirà una tua storia del noir italiano. Un libro-documento fondamentale per gli scrittori di genere. Continuerai anche con De Vincenzi e la cara vecchia Milano dei café chantant fuori porta che erano solo povere osterie ma in un’epoca povera e buia regalavano qualche fettina di felicità?
Marsilio pubblica a settembre il mio “Storia del giallo italiano”. Cesare de Michelis prima di morire mi aveva chiesto assieme a suo nipote Jacopo di fare una nuova versione aggiornata del mio “Tutti i colori del giallo”. Ci ho impiegato alcuni anni anche perché le novità letterarie legate al giallo italiano continuano a moltiplicarsi sul mercato ed era complicato trovare una sintesi credibile. Vi troverete fra le mani una guida ricca di suggerimenti di libri da recuperare. Per De Vincenzi è prevista prima un’antologia di dieci racconti con due cornici in apertura e chiusura. E nel frattempo sto lavorando al terzo romanzo che sarà probabilmente più lungo dei due precedenti.
Una delle serate di Giallo di Sera renderà omaggio a Giorgio Faletti, un grande scrittore di noir che ci ha lasciato troppo presto, un uomo da palcoscenico, un attore e perfino un magnifico chansonnier salito sul palco di Sanremo. Immagino che avrai tanti ricordi, tanti episodi che ti legano a lui, puoi raccontarcene qualcuno?
Ho conosciuto Giorgio grazie a Tecla Dozio e con lui ho fatto molte presentazioni e interviste radiofoniche. Era una persona simpaticissima e vivacissima. Sua moglie ogni volta che me lo portava a Radiodue diceva: “dove devo metterlo il pacco? Avvisami quando devo passare a ritirarlo?”. Io e Seba Pezzani siamo stati complici nel fare incontrare Faletti e Deaver a una cena della Sonzogno dove ad agosto mangiammo polenta alla valtellinese. Inoltre quando uscì “Io uccido”, registrai in radio un mini adattamento di alcune sequenze della storia. Giorgio iniziò la promozione del titolo molto dopo l’uscita a causa di problemi di salute che lo avevano bloccato per alcuni mesi ma quando venne in Rai ascoltò con attenzione quello che avevamo registrato in omaggio a lui. Poi guardandomi mi disse: “ma non vi vergognate?”. Quell’episodio gli fece venire in mente che avrebbe potuto farmi uno scherzone che non è poi mai riuscito a farmi. L’ho raccontato però nel dettaglio in apertura all’antologia “Giallo al Cabaret”. Vista la sua passione proverbiale per le beffe durante la serata a Ortona racconterò cosa combinò Giorgio a un Premio Grinzane Noir svelando come aveva scritto il suo primo racconto e come l’aveva fatto leggere alla moglie di Gianrico Carofiglio svegliandola nel cuore della notte.
MilanoNera ringrazia Luca Crovi e, nell’attesa dell’inizio di Giallo di Sera a Ortona, vi ricorda che ogni giorno alle 16.00 uscirà un articolo riguardante gli ospiti del festival. A domani con…
Per saperlo ci vediamo domani alle 16.00