I grandi ospiti del Noir In Festival: intervista a Gianrico Carofiglio – L’estate fredda

download-2Siamo al Noir In Festival e la maggioranza degli autori sono italiani. Molti lettori, però, dichiarano apertamente di non voler leggere italiani. Cosa si risponde a queste persone? Che garanzia danno gli stranieri?
La lettura è forse uno degli ambiti di maggiore libertà per un essere umano, compresa la libertà di dire sciocchezze, perché no?, come ad esempio “io non leggo italiani”, “io non leggo turchi”, “io non leggo donne”. A me succede spesso di incontrare lettori, anche persone intelligenti, che però fanno un’affermazione non particolarmente acuta del tipo: «Io non leggo italiani, di solito, poi però ne ho letto uno tuo e allora li ho presi tutti». Ovviamente la mia vanità, che non scarseggia, viene accarezzata da un’affermazione del genere. Poi, però, c’è una chiave anche più seria della vanità, cioè che spesso uno non legge una data tipologia di libri perché magari ha fatto una brutta esperienza. Per quello che mi riguarda, io trovo più corrispondenze con certa letteratura nordamericana, ma leggo anche gli italiani, alcuni mi piacciono e altri no.

In “L’Estate fredda” ha dato il ruolo di protagonista al maresciallo Pietro Fenoglio, personaggio già comparso qualche anno fa nel racconto “Una mutevole verità”. Per quale motivo ha scelto di riprendere proprio quel personaggio?
Prima di decidere di riprendere questo personaggio, è venuta la storia che c’è in questo romanzo, che è una storia di finzione calata su uno sfondo reale, storico, sia per quel che riguarda la storia della Puglia criminale, che per quel che riguarda la storia in generale di questo Paese (sullo sfondo ci sono infatti le stragi di mafia del 1992). Quando ho avuto la sensazione di aver voglia di raccontare quella storia, è stato quasi naturale pensare che il protagonista potesse essere questo maresciallo dei Carabinieri, che aveva fatto una rapida apparizione nel breve romanzo Una mutevole verità del 2014, che peraltro ha vinto il Premio Scerbanenco.

A un certo punto, lei parla della mafia carceraria. E’ un fenomeno che veramente esiste ed esisteva? Si può davvero parlare di una sorta di concorrenza, come tra fratello minore e maggiore, tra mafia pugliese e camorra?
Tutto quello che trovate in questo libro esiste veramente, la trama è di finzione, ma tutto il resto è vero. E’ vera, quindi, la storia della mafia pugliese, che viene raccontata attraverso le parole di un collaboratore di giustizia. Le mafie pugliesi nascono tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, soprattutto come consorterie di autodifesa carceraria; significa che i detenuti pugliesi che non venivano da formazioni mafiose, nelle carceri venivano sottoposti a vessazioni da parte dei mafiosi veri, soprattutto di origine campana, cioè dai camorristi. A un certo punto questa situazione fu considerata non più tollerabile e alcuni, dotati di intraprendenza, cominciarono a costituire questi gruppi in carcere, utilizzando gli schemi rituali, i gradi e in generale tutto l’apparato organizzativo della ‘ndrangheta calabrese e cominciarono ad affiliare in carcere; la cosa funzionò, perché, l’espressione può sembrare banale, l’unione fa la forza. Si crearono gruppi mafiosi pugliesi all’interno delle carceri, che all’inizio si limitavano a difendere i loro affiliati in prigione, ma poi a mano a mano che la gente usciva, diventarono operativi all’esterno. L’organizzazione delle consorterie al di fuori del carcere funzionò bene e raggiunse i vertici di massima pericolosità proprio negli anni in cui è ambientato il romanzo.

All’interno del sistema mafioso pugliese, ma non solo, il linguaggio simbolico ha un valore formale importantissimo, così come la ritualità. Come mai, secondo lei, tutt’oggi è rimasto in auge questo sistema, che può sembrare tutto sommato desueto?
La ritualità è diffusa soprattutto nella ‘ndrangheta e, di conseguenza, nelle mafie pugliesi che ad essa si sono ispirate. Il sistema rituale può sembrare un po’ grottesco, ma se uno entra psicologicamente nella condizione di spirito degli affiliati, la cosa sembra meno grottesca e più inquietante. Non dimentichiamoci che esistono oggi, nel 2016, organizzazioni del tutto lecite, come la Massoneria, ad esempio, in cui i rituali di affiliazione sono ugualmente bizzarri, se visti dall’esterno, eppure di tali organizzazioni fanno parte, alle volte, persone di livello altissimo. Evitiamo qualsiasi rischio di equivoci: non ho nessuna intenzione di assimilare la Massoneria alle associazioni mafiose, sto cercando di entrare nel meccanismo psicologico. Entrambe le realtà, infatti, sono caratterizzate da un aspetto fondamentale. Il rituale di ammissione serve a generare il senso di appartenenza, l’idea di non essere più qualcuno che sta fuori, ma di essere diventato qualcuno che sta dentro e di essere diventato parte di un tutto, e quindi di qualcosa che è più grande del singolo individuo, che lo protegge e che espande le sue facoltà, quali che esse siano (positive, neutre o negative, come per il crimine organizzato). Peraltro va detto che per queste forme rituali delle mafie pugliesi e della ‘ndrangheta ci sono una serie di assonanze, di suoni e di contenuti direttamente riconducibili alla storia della Carboneria; ci sono alcuni dei rituali per l’innalzamento a gradi elevati in cui si fa riferimento a Giuseppe Mazzini, a Giuseppe Garibaldi e a La Marmora. A uno può venire spontaneo chiedersi che hanno a che fare con la mafia pugliese o con la ‘ndrangheta: questo aggregato rituale è il frutto di una serie di sequenze, che sarebbe molto interessante indagare di più dal punto di vista antropologico.
Per concludere, sta di fatto che i rituali servono a creare il senso di appartenenza, e questo è un aspetto fondamentale in un’associazione mafiosa.

Ieri sera, durante  presentazione, Saviano ha detto che lui non vuole far evadere il lettore; è lui, invece, a volerlo invadere, vuole far sì che il libro equivalga a prendersi il tempo per riflettere e per trasformarsi, per cambiare. Lei cosa ne pensa?
Secondo me c’è una terza possibilità. Sono d’accordo sul fatto che la letteratura d’evasione, che pure è una cosa rispettabile, non è quello che mi interessa. Devo dire, però, che non mi interessa nemmeno invadere il lettore, è una cosa che non mi piace come prospettiva. Mi piace, invece, l’idea che chi scrive crei un mondo di fantasia, con le sue regole rigorosamente rispettate, in modo da sembrare un mondo reale, all’interno del quale vi sono degli spazi vuoti, destinati alla fantasia del lettore, che però non va invasa. Trovo che invadere il lettore non rientra fra le mie ambizioni, ma sono d’accordo con Saviano sul fatto che se parliamo di letteratura non possiamo parlare di evasione, è un po’ ossimorica l’espressione “letteratura d’evasione”.

Guardando le classifiche, specialmente quella italiana, il noir sta acquistando sempre più  spazio. Pensa che sia il genere che meglio descrive e indaga la nostra realtà?
Guardi, ci sono molti autori commerciali che sostengono che il noir è l’unica forma letteraria che permette di affrontare le contraddizioni della modernità. Io non sono particolarmente interessato alla questione della delimitazione dei confini tra il cosiddetto romanzo in senso stretto, e il noir. E’ un’operazione piuttosto difficile, se si va al di fuori della pura letteratura commerciale. Se si va al di fuori di questa, ad esempio, Edipo Re era un noir? Eppure, se uno dovesse andare a riferirsi alle caratteristiche che normalmente permettono di definire cosa sia un noir, c’è tutto: c’è un mistero, c’è un omicidio, c’è l’enigma svelato. Delitto e castigo era un noir? Ci fa ridere l’idea. Le etichette possono aiutare a cogliere le sfaccettature di un romanzo, io non sono ostile alle etichette, ma l’importante è che l’etichetta venga riconosciuta come tale, ovvero una cosa che definisce una parte di un romanzo, ma non il tutto, non bisogna diventarne schiavi. Ci sono dei casi di rispettabilissime opere, anche di ottima qualità commerciale, che però non aspirano ad essere altro da quello che sono, però anche qui, come per la letteratura d’evasione, anche la definizione “letteratura commerciale” è un ossimoro.

Nei suoi romanzi, i personaggi passano molto tempo a parlare da soli, a lavorare di coscienza, quasi che fosse la coscienza stessa a permettergli di andare avanti in ciò che fanno. Come mai ritiene questo aspetto così importante?
Lo ritengo fondamentale, questo riprende una cosa che diceva Hannah Arendt: non c’è dimensione morale senza continuo autointerrogatorio, senza interrogarsi, senza farsi domande sul senso delle proprie azioni e sulla loro dimensione etica.

Ogni libro può diventare momento di crescita?
Senza dubbio, su questo sarei molto asciutto. E’ una questione che ha a che fare, per i personaggi o per le persone, con la consapevolezza morale.

Lei presenta Lopez e Ambrosini come due malviventi sui generis, particolarmente “umani”, istruiti, capaci di esprimersi in maniera adeguata e forbita. Le è mai capitato, nella sua carriera di magistrato, di incontrare malviventi così?
Farei una distinzione. Il personaggio di Lopez, il collaboratore di giustizia, sa esprimersi in un italiano corretto ed è un uomo intelligente, capace anche di interpretazioni psicologiche, anche piuttosto raffinate, ma poi la lingua di Lopez nel libro è quasi sempre la traduzione in gergo di verbale: Lopez parla direttamente solo in un paio di occasioni. Certo che ne ho incontrati così, sia che fossero capaci, sia che non fossero capaci di parlare italiano. L’altro, Ambrosini, che diventa un confidente di Fenoglio, è una persona di livello superiore, che ha studiato; dice senza un filo di turbamento, a un certo punto, di aver fatto non ricordo bene quanti esami di giurisprudenza e che avrebbe voluto fare il magistrato. Questo è uno dei momenti in cui il senso di irrealtà di certe affermazioni serve a far riflettere, nel romanzo, sulla poca nettezza dei confini tra il bene e il male, soprattutto in certi contesti.
La parte centrale del romanzo è costruita attorno ai verbali delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia; sono verbali inventati per il romanzo, ma altamente corrispondenti a come si scrivevano allora, nel 1992.
L’uso dei verbali è una scommessa in questo libro, perché l’idea è di prendere questa lingua astratta, burocratica, apparentemente, o forse sostanzialmente, irreale, che tende ad allontanare i significati, e cercare di trasformarla in materia romanzesca, per dire la verità sulle cose che si stanno raccontando. Mi dicono alcuni lettori che, in questo caso, la lettura dei verbali produce un effetto ipnotico e uno viene trasportato in un mondo estraniato ed estraniante, che poi era l’obiettivo di questa forma stilistica. Questa scommessa è legata ad un altro aspetto, ovvero alla maniera in cui i verbali si legano alla narrazione romanzesca più tradizionale, che costituisce la maggior parte del libro, cioè a come sono state fatte le cuciture fra il romanzo e i verbali. Mi diceva una signora che lavora nell’editoria, di aver letto il romanzo con occhio tecnico, cioè cercando deliberatamente queste cuciture e, cosa che mi ha fatto molto piacere, diceva di non averle trovate. E’ un bel complimento, e me lo sono preso.

Niccolò Valentini

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