Intervista a Jessica Ochs

Incontriamo Jessica Ochs, giovane ed emergente criminologa, già insegnante all’Università Carlo Cattaneo-LIUC di Castellanza, dove coordina il Centro di ricerca sul crimine ed il master in criminologia forense, e all’Università Ecampus di Novedrate. Data la sua competenza, la Ochs nonostante la giovane età ha già alla spalle diverse consulenze sia in Italia che all’estero, collaborazioni importanti tra cui spicca quella con la Polizia svizzera del Canton Ticino.

Abbiamo deciso di intervistare Jessica Ochs perché, dopo essere stata autrice di diverse pubblicazioni scientifiche, ha recentemente esordito in libreria comparendo con il sorprendente e ben riuscito racconto “Il dolore che non parla”, contenuto nell’antologia “Casi Freddi” a cura di Mauro Zola pubblicata qualche mese fa da Cairo Editore. Nonostante l’impegnativa coesistenza con gli altri autori di questa raccolta, alcune fra le più importanti figure legate alla criminologia italiana (dallo psichiatra Massimo Picozzi fino al colonnello Luciano Garofano del RIS di Parma, per intenderci) il racconto della Ochs emerge per capacità evocativa e brillantezza d’esposizione.

Le chiediamo quindi per prima di raccontarci le sue impressioni riguardo questo libro, e le sue sensazioni nel comparire a fianco di veri e propri “mostri sacri” della criminologia internazionale.

L’idea di Mauro Zola di istituire una “fittizia”squadra speciale di investigatori per i 9 “cold case”, attribuendo ad ogni autore un ruolo della realtà investigativa è stata, a mio avviso, un’intuizione a dir poco geniale.

Alcuni grandi nomi, come Luciano Garofano, Alberto Intini, Adolfo Ferraro, Cristiana Lodi, Mauro Zola li conoscevo per vicende professionali oppure per collaborazioni nel Master in Criminologia Forense che io coordino presso l’Università di Castellanza. Gli altri, con mia piacevole sorpresa, ho avuto modo di conoscerli durante il percorso. Per ognuno di loro, inutile dirlo, ho potuto apprezzare e ammirare la grande preparazione e professionalità nei diversi campi, cercando di “rubare” – come si dice – “l’arte dei veri maestri” e di sfruttare questa occasione eccezionale al meglio possibile.

Credo sia difficile raccontare le sensazioni che una persona, ancora in formazione come mi sento, possa provare quando i più grandi professionisti del settore si stringono attorno a essa e la accolgono con grande entusiasmo. Non esiste, forse, nemmeno un termine che possa esprimere così tanta gioia e riconoscenza, ma credo che loro lo abbiano potuto capire guardando la felicità riflessa nei miei occhi!

Com’è nata la scelta del caso che analizzi in questo racconto?

Operando in un centro di ricerca universitario a pochi chilometri da Somma Lombardo, teatro degli efferati delitti delle Bestie di satana, è stato inevitabile occuparmi degli omicidi e della loro ritualità. E studiando i fascicoli di “casa nostra” ho scoperto il più celebre precedente mai registrato al mondo: il caso WM3.

Impossibile non trovare suggestioni simili, dubbi, perplessità, efferatezze accanto al rischio concreto di errori giudiziari. Sopra ogni cosa il mistero di un delitto di ispirazione satanica.

E come non ricordare il finale folgorante di “I soliti sospetti” quanto Kevin Spacey/Kaiser Soze dice “La beffa che il diavolo abbia fatto è quella di convincere il mondo che lui non esiste… e come niente… sparisce”.

Il racconto è impostato tecnicamente in maniera originale, ovvero alterna egregiamente una narrazione in stile fiction a momenti di puro “true crime”: quali le motivazioni che ti hanno spinto ad un approccio di così particolare?

Entrambi gli artifici narrativi del “true Crime” e della “short novel” mostravano, a mio avviso, alcuni limiti nel rendere appieno l’incredibile crudezza della storia dei WM3. Mi sono perciò presa alcune settimane divorando le “opere dei maestri”, da Jeffrey Deaver a Michael Connelly fino alla cosiddetta “Trilogia di Millennium” di Stieg Larsson, andandomi anche a riprendere “L’ombra dello scorpione”.

Alla fine ho deciso per un mix degli stili che mi è sembrato il più performante.

Ti sono state d’ispirazione letture all’interno del genere noir? Quali sono i tuoi autori preferiti?

Se chi ho citato prima è stato il riferimento per una perfetta miscela fiction/non fiction, il mio autore prediletto resta sempre Simenon e forse non è un caso, perché a pensarci bene Simenon è forse l’autore più capace di restituire sapori, colori e atmosfere “che mentre lo leggi tutto ti sembra reale”.

Senza però dimenticare che io sono una criminologa sul campo e che quindi le cose le ho incontrate nei fascicoli processuali, nella sofferenza delle vittime e nelle facce degli assassini.

Più in generale, in base alla tua esperienza sul campo credi che in Italia le forze di polizia siano attrezzate, sotto i più svariati punti di vista, per riprendere in mano e risolvere con successo i cosiddetti “cold case”, tema che accomuna i racconti di questa antologia?

Potenzialità ed eccellenze non mancano, né tra la polizia né tra l’Arma dei Carabinieri con una sostanziale differenza di esperienza tra i grandi e i piccoli centri urbani. È per questo che la formazione, la creazione di protocolli uniformi d’intervento è fondamentale: perché tutti sappiano esattamente cosa fare e il rischio di scene contaminate diventi un ricordo del passato.

 

 

Fabio Spaterna

Potrebbero interessarti anche...