La bambola del cisternino



Diego Collaveri
La bambola del cisternino
Frilli
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LIVORNO E LA MEMORIA DELLE SUE ACQUE

Livorno non è città d’acqua solo perché si affaccia sul mare, ma anche per quella ricca rete di vie navigabili che la attraversano – lo Scolmatore, il Canale dei Navicelli e i Fossi medicei – rendendo così peculiari le fortezze, i palazzi, le piazze, persino le cantine che vi si specchiano.
Diego Collaveri – scrittore noir, sceneggiatore e regista – ha dedicato i suoi due precedenti romanzi alla celebrazione di quelle vie: L’odore salmastro dei Fossi (2015) ai Fossi, appunto quei fossati colmi di acqua salata che difendevano l’antica cerchia muraria pentagonale, e Il segreto del Voltone (2016) al Fosso Reale e alla volta che lo ricopre, il Voltone.
Nella città labronica, però, assurge a monumento dell’acqua anche l’acquedotto che ha alimentato Livorno fino al primo decennio del ‘900, l’Acquedotto leopoldino: un complesso tracciato di diciotto chilometri pienamente integrato nella natura, che corre dal torrente Marra al Cisternone cittadino, ovvero all’imponente serbatoio in stile neoclassico progettato dall’architetto Pasquale Poccianti nella prima metà del XIX secolo, con pregevole dignità monumentale.
Lungo il tracciato leopoldino, in località Pian di Rota, sorge il Cisternino, un serbatoio di più ridotte dimensioni rispetto al Cisternone che fino agli ultimi anni del XIX secolo aveva il compito di purificare le acque e che per questo era chiamato anche Purgatorio.
E’ questo lo sfondo suggestivo dell’ultimo romanzo di Diego Collaveri, La bambola del Cisternino, accomunato ai precedenti dallo stesso protagonista, il commissario Mario Botteghi.
Botteghi e la sua squadra – il fedele Busdraghi, detto Panzer per la dedizione con cui persegue l’allenamento dei suoi addominali senza peraltro venirne ricambiato con risultati apprezzabili, e il nordico Mantovan, detto Il Ragazzo, le cui brillanti doti di intuizione investigativa sono apprezzate con orgoglio quasi paterno dal suo superiore – vengono chiamati a indagare sull’omicidio di una vecchia prostituta, Lucia Biagini, domiciliata in un camper malandato lungo la strada che conduce appunto al Cisternino.
Un caso come tanti, magari la gelosia di colleghe più giovani o la rabbia di un protettore che ha voluto punire una outsider, eppure Botteghi non si dà pace e fin da subito avverte un coinvolgimento personale, come la memoria di qualcosa che lo ha toccato da vicino ma non vuole saperne di affiorare alla coscienza. O forse, a farlo stare così male, è proprio un sussulto di solidarietà sociale, “il pensare alla miseria di quella vita passata ai margini di una strada, vendendo se stessa per pochi spiccioli ad altri emarginati della società come lei”.
Sia come sia, da quel momento il commissario è perseguitato dall’eco di una musica lontana che neppure riesce a decifrare, anzi nemmeno è consapevole di canterellarne sempre lo stesso motivo fino a quando, grazie a Busdraghi, finisce per sapere che appartiene a La bambola, il grande successo di Patty Pravo del 1968.
L’indagine però langue e neppure la scoperta sul luogo del delitto di tracce di una droga particolare, il cui traffico doveva essere stato sgominato negli anni precedenti, sembra condurre a una svolta. Anzi, il commissario capo della Narcotici, l’affascinante Vittoria De Marco di fresca nomina, e il questore Mancusi si oppongono a qualsiasi richiesta di collaborazione da parte di Botteghi, trincerandosi dietro l’estrema riservatezza di un’indagine top secret.
Sarà solo un secondo delitto in apparenza scollegato dal primo, l’omicidio di Marcello Andreini, un importante imprenditore edile specializzato nel restauro dei monumenti più significativi della città, a svelare una trama di loschi traffici internazionali, incentrati su smercio di droga e di armi micidiali.
Diego Collaveri firma un affresco potente dei nostri giorni dove anche una città di provincia come Livorno può, con verosimiglianza, diventare luogo di elezione per un’articolata rete di commerci illeciti. E ciò grazie a quelle sue peculiari vie d’acqua, defilate e collegate al mare.
Come già ne Il segreto del Voltone l’immaginazione dell’autore popolava gli anfratti del Fosso Reale di presenze e di echi della storia recente, avvalorandoli con una solida ricerca documentale, così ne La bambola del Cisternino anima il tracciato dell’Acquedotto leopoldino di attività sinistre pur restituendo intatto il fascino dell’ambientazione.
Inseguimenti, confronti accesi, sparatorie si succedono con realistica tensione tra i bagliori ingannevoli di quell’acqua che giace in deposito, lungo le balaustre rugginose di quelle scale che offrono ambigue opportunità di salita o discesa.
Mario Botteghi è protagonista di sicuro rilievo, non uno dei tanti che secondo certa critica popolano senza incisività questo nostro ‘paese di commissari’. No, Botteghi, chiuso in un dolore antico e sempre urente in quanto auto inflitto, incarna con piena credibilità una solitudine che gli si attaglia come “un cappotto d’inverno” e vive con ostinata perseveranza un buio interiore che pare divorarlo, ancor più crudele in antitesi alla normalità spensierata di chi ancora può godere delle piccole gioie della vita.
Tratteggiati con mano esperta anche i personaggi di contorno: i suoi collaboratori e i colleghi; Mariella ostessa premurosa e amica fedele che non si lascia scoraggiare dalla chiusa ostinazione del commissario; la fascinosa responsabile della Narcotici, impegnata in un gioco di sottile seduzione e ostilità professionale; la deliziosa Silvia, guida labronica di sicura competenza che forse vorrebbe essere qualcosa di più.
E su tutti Livorno, protagonista indiscussa e non semplice sfondo, di cui ogni aspetto è reso con vitale appartenenza: il suo mare, che muta colore e sentimento in dipendenza dell’alternanza atmosferica, e gli stati d’animo che ne rimangono soggiogati; l’odore salmastro che penetra in ogni anfratto e le conferisce un’identità che è solo sua; il volo dei gabbiani che riflette tempo e umori degli uomini; le statue persino che partecipano della vita intorno, come Ferdinando I che sovrasta i Quattro Mori  e da cui quasi ci si aspetta che stacchi “le mani dai fianchi per tapparsi le orecchie a causa del frastuono” causato dal traffico.
Una scrittura sicura quella di Diego Collaveri che a tratti si apre al colore di qualche espressione della parlata toscana ma che rimane fluida e, soprattutto, visiva. La sua passione per il cinema, che è diventata anche professione, traspare da ogni pagina. Un esempio, tra tanti? Le prime righe del prologo, una soffitta declinata in una gamma polverosa di grigi, una leggere brezza incolore che penetra dalle aperture, su in alto, e porta con sé una promessa di verde e il profumo dell’erba bagnata.

Giusy Giulianini

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