Imbattersi nelle pagine di Michael Connelly è sempre una sorpresa di rara gradevolezza.
L’Autore di Philadelphia ci ha abituato ad un vasto parterre di personaggi di indubitabile spessore, nonostante il loro numero certamente non esiguo. Merito di una penna abilissima nell’intrecciare sia trame, sia personaggi che vagabondano da una pagina all’altra, finanche da un libro all’altro.
Ed è proprio questa la storia editoriale del reporter Jack McEvoy protagonista di questo “La morte è il mio mestiere”, cronista di nera alla sua terza apparizione dopo “Il poeta” e “L’uomo di paglia”.
Una calamita di sfortune lo conduce di forza, suo malgrado, al centro di indagini che ruotano attorno all’omicidio di una donna con la quale proprio lui ha trascorso una sola notte poco tempo addietro.
Lo fissai in silenzio per un istante. Un cacciatore di fatti e informazioni come me si tiene stretto ciò che sa e non lo rivela fino al momento in cui lo scrive in un articolo: la misura della bellezza narrativa del lavoro di Connelly risiede in queste soggettive, in queste prime persone, in queste scelte narrative secche e aride, che ben rendono il mood dei personaggi, certamente influenzati dalle luci e dalle ombre di Los Angeles, la città del vizio, del denaro facile, del sesso dietro ogni angolo buio.
Del whiskey in ghiaccio da bere da un bicchiere rotto: la copertina chiarisce da subito il percorso attraverso il quale il lettore sarà condotto, complici le attente scelte lessicali della traduzione di Alfredo Colitto (già alter ego letterario di Don Winslow e Joe R. Lansdale) in un eccellente prodotto targato Piemme.
La morte è il mio mestiere – Michael Connelly
Giuseppe Calogiuri