Il paesaggio è spettrale. La terra, pianeta sovrappopolato da megalopoli che piano piano hanno strappato il verde in maniera dissennata, mettendola in pericolo, non c’è più. Non c’è sole. Tutto ha un unico colore: il grigio della cenere che ricopre ormai ogni cosa. Anche la neve, che cadeva bianca e soffice, ha assunto la stessa tinta e si è uniformata al resto del paesaggio, la cui monotonia è rotta dagli alberi bruciati, che come oscuri totem si ergono ostinati, come aspettassero che qualcuno arrivi a riportarli in vita. Ma ogni tanto il silenzio è rotto dallo schianto di uno di loro che non ce l’ha fatta ad aspettare.
I protagonisti del romanzo di Cormac McCarthy si muovono in un’America ormai fantasma. Sono un padre e un figlio. Non pronunciano i loro nomi, forse li hanno dimenticati, impegnati come sono a cercare di rimanere vivi per perdere tempo in convenevoli. Non sono gli unici a vagare come lupi affamati alla ricerca di una carogna che possa saziare la loro fame. Ogni tanto, lungo la strada incontrano degli altri esseri umani, che come loro probabilmente attraversano l’America per raggiungere il mare, con la speranza che almeno l’acqua possa serbare ancora un po’ di vita. Cormac McCarthy tratteggia con sapiente maestria il rapporto tra padre e figlio. Un padre disperato, la cui sola preoccupazione è la salvezza del figlio. Una pistola per proteggere entrambi e un carrello con tutti i loro averi: un cumulo di coperte lerce e del cibo, quando riescono a trovarlo.
Il registro del racconto può suonare monotono, ripetitivo, ma è solo un artificio narrativo usato da McCarthy per suscitare nel lettore la stessa angoscia provata dai protagonisti. Anche il bambino, non del tutto convinto che il padre si comporti sempre nel modo giusto, ripete ossessivamente, come una filastrocca che probabilmente il padre gli ha insegnato per tranquillizzarlo dalle sue paure: “Perché noi siamo i buoni. E portiamo il fuoco.”