Se vuoi vivere felice



Fortunato Cerlino
Se vuoi vivere felice
Einaudi
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Se vuoi essere felice è un opera prima, no! Forse meglio dire un romanzo di formazione, firmato da Fortunato Cerlino. Cerlino, attore reso famoso sia dal suo efficace e incisivo ruolo del boss don Pietro Savastano in Gomorra, la serie che gli ha regalato grande notorietà facendolo diventare uno degli attori italiani più conosciuti anche all’estero, che per la sua partecipazione nelle vesti dell’imperatore Vespasiano nella serie internazionale Britannia. E ora Cerlino, passato di recente e con successo alla miniserie televisiva Bianco e nero nel ruolo del sovrintendente capo Mario Muzo, amico e collega del protagonista, si è messo brillantemente in gioco davanti al suo pubblico anche nei panni dello scrittore. E, a conti fatti, una bella soddisfazione, perché Se vuoi essere felice è un romanzo riuscito, emozionante e coinvolgente, inserito in una cornice profondamente noir. Un bel libro dove Cerlino ripercorre quella che è stata la storia di un ragazzo di Pianura sfuggito alle trappole e alle lusinghe della criminalità organizzata. Un romanzo che ci regala ricordi dolceamari, miraggi, fantasie, bugie e vanità, impastati con pericolosi sprazzi di criminalità metropolitana, e che rispecchia con sincerità e umanità un compendio di vita vissuta, ma anche la consapevolezza di poterla cambiare. “Ho conservato un libriccino con i miei appunti di bambino povero di Pianura, quella periferia di Napoli detta Far West negli anni 80 delle “stese” (i micidiali agguati) della camorra. Una specie di diario che è servito per annotare le paure, la bravate, gli angosciosi ricordi e le impressioni vere dell’essere nato, vissuto e cresciuto in un posto duro e difficile. Quando da ragazzino si trovava di fronte a qualcosa di abnorme, magari un morto coperto di sangue e trovato a terra per strada (ucciso da chi e perché?) o ad alcune scelte forzate che non capiva, prese di chi gli stava vicino, Cerlino scriveva. A futura testimonianza? Per non dimenticare? Poi, quell’ imprescindibile quid che ha fatto la differenza, l’appoggio appassionato e disinteressato di una maestra elementare e in seguito quello di un professore di italiano che hanno modificato il corso della sua esistenza. E anche di questo si serve oggi per dimostrare che niente è scritto, ma contano solo la voglia e la volontà che possono trasformare, ribaltare un destino e fornire la spinta necessaria ad avviarsi verso un futuro migliore. Gli anni ‘80 vissuti dalla famiglia di Fortunato Cerlino erano quelli di una qualsiasi famiglia italiana che doveva fare i conti con pochissimi soldi, il padre aveva perso il lavoro e la madre si arrangiava in mille faccende, e con un contesto socialmente inquadrato nell’abitudine al sacrificio. La mamma, che riesce a creare piatti meravigliosi seguendo i consigli della televisione (ma solo dei canali locali. Vietati i nazionali, non ci si poteva permettere di pagare il canone), usando ingredienti a buon mercato. Pochi soldi e tante bocche da sfamare, ma ogni tre settimane il lusso di un panzerotto di patate. La spesa fatta nel caotico miraggio del centro commerciale, arrampicati sulla 850 scalcagnata, rito collettivo e che non prevede alimenti superflui, salvo quelli che si possono solo rubacchiare al volo, con il tacito assenso e la complicità delle rotondità della nonna, non visti dalle guardie e dai genitori. Scarpe e vestiti rigorosamente mai di marca ma si passano tra fratelli e sono sempre copie, come l’ambita grotta di Lourdes, alla fine eretta gloriosamente tra i palazzoni con la Madonna portata in processione dai devoti. La fantasia di un bambino può permettergli di creare un castello in un luogo fatto di nulla, e persino una lurida branda abbandonata in una casa semibruciata da ignoti può diventare il rifugio perfetto dove sognare un avvenire in cui chi nasce tondo può riuscire a “morire quadrato”… Un contesto fragile, di indigenza, spesso soggetto al contagio della micro delinquenza o facile preda della criminalità che tentatrice passava pericolosamente vicina ogni giorno. Perché a quell’epoca nel Far West di Pianura si poteva pensare a diventare camorristi e dunque criminali o cantanti neomelodici, o magari tutte e due le cose contemporaneamente? Ciò nondimeno per fuggire e allontanarsi in qualche modo non restava che l’immaginazione. Bello e spesso struggente il bilancio a confronto tra l’io narrante tra il bambino e l’adulto, che mischia nel linguaggio l’italiano con il dialetto napoletano. Mentre la morte viene vista e ricostruita attraverso occhi infantili, nel magico e fatale volo di “o Spaidermàn” quasi come un processo di crescita, di cambiamento ma e comunque come un qualcosa che segna per sempre.

Patrizia Debicke

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