Loch Down Abbey – Beth Cowan-Erskine



Beth Cowan-Erskine
Loch Down Abbey
Mondadori
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“Dilettevole”, questo il primo aggettivo che mi si affaccia alla mente appena girata l’ultima pagina di Loch Down Abbey (Il Giallo Mondadori, febbraio 2022) di Beth Cowan-Erskine.
E “dilettevole”, o anche accogliente, è infatti una possibile traduzione dell’inglese cosy, termine che, abbinato a crime, è stato coniato dalla critica anglosassone tardonovecentesca per indicare un sottogenere nel quale la trama delittuosa è sviluppata con humour e leggerezza. Light crime, diremmo noi, con accezione più consueta.
È certo comunque che le oltre 380 pagine di Loch Down Abbey si leggono d’un fiato, un sorriso quasi costante sulle labbra che spesso si trasforma in una franca risata.  

Tra aprile e dicembre di una anno imprecisato dei favolosi Trenta, un’epidemia – che molto somiglia al nostro famigerato Covid ma risponde al nome più giocoso di Malperniciosa virulenta -, si abbatte sui possedimenti  scozzesi degli Ogilvy-Sinclair, la tenuta Inverkillen, 5.000 acri di terra lungo il fiume Plaid su cui sorgono: Loch Down Abbey, il castello di famiglia con 125 stanze; Drummond House, la residenza della contessa vedova; una distilleria che produce il peggior wisky di Scozia; un’attività di successo legata ai salmoni che risalgono il Plaid.
Mentre la famiglia al completo – la matriarca lady Georgina, l’attuale conte di Inverkillen Amish, il fratello Cecil e la sorella Elspeth, coniugi, figli e nipoti – fa ritorno al castello dopo il tradizionale ballo di primavera dei McIntyre, il fatale virus si abbatte su Loch Down Abbey e falcia dapprima la bambinaia, Tata Mackenzie, per poi costringere a letto buona parte dei domestici.
I nobili pargoli, sette furie scatenate, sfuggono così a ogni controllo e infestano l’austera dimora facendosi beffe degli adulti e prendendo possesso di scale e passaggi segreti.
La costernazione degli augusti genitori è grande, loro d’altronde con i figli non hanno mai avuto a che fare, ma ancora maggiore è quella della governante, Alice McBain, e di Iris Wynford, una giovane accolta per carità dagli Ogilvy-Sinclair e ora investita dell’impossibile incarico di sorvegliare quelle pesti irriducibili.
Una disgrazia ben peggiore è però in agguato. Mentre il virus infuria e decima il personale di Loch Down Abbey, il diciannovesimo conte di Inverkillen sparisce dal castello e poco dopo viene rinvenuto cadavere sull’orlo della diga, con una brutta ferita alla nuca. Omicidio o incidente? La polizia, incompetente quanto si conviene, liquida ben presto la faccenda come una malaugurata disgrazia. La governante invece, insospettita da alcuni particolari discordanti, inizia una sua indagine privata.
Tra fortune dilapidate, amori ancillari, fidanzate arrampicatrici sociali, figli illegittimi, opere d’arte falsificate, la signora McBain avanza verso la soluzione del mistero con sorprendente fiuto, pari almeno alle sue competenze domestiche. E i suoi nobili datori di lavoro? Naturalmente restano arroccati, immobili e capricciosi, nei loro inveterati privilegi. Quando poi dal precipitare degli eventi saranno chiamati a contribuire al ménage famigliare, non mancheranno di dimostrare tutto il loro inetto egoismo.  

Beth Cowan-Erskine regge con maestria un nutrito cast di personaggi, i cui punti di vista si alternano con originalità nel racconto della vicenda. I nobili abitanti di upstairs sembrano assommare i peggiori difetti umani: avidità, egoismo, lussuria, cinismo, cieco pregiudizio, non risparmiano nessuno. Si salvano soltanto l’onorevole Fergus, che cerca almeno di salvare il salvabile, e la matriarca, lady Georgina, rudere di un’altra epoca, animata però da un incorruttibile senso del decoro e dunque spietata anche verso i suoi stessi parenti. 

Tutt’altre simpatie l’autrice indirizza verso downstairs. La scelta risulta forse un po’ manichea, però la schiera dei domestici guadagna ben presto anche le nostre simpatie e la consumata diplomazia con cui la governante costringe i padroni a rinunciare, uno alla volta, ai loro inossidabili privilegi non può che meritare il nostro plauso.

La vicenda, intricata quanto si conviene, si dipana al ritmo indiavolato di un vaudeville, mentre un sorriso feroce accompagna il declino degli Ogilvy-Sinclair: una Caduta della casa degli Usher, insomma, ma sulle note di un irresistibile foxtrot.

Non capisco perché la critica anglosassone si ostini a tirare in ballo Agatha Christie ogni volta che un mistery si svolga in suolo britannico e la sua ambientazione ricordi alla lontana i confini ristretti di un villaggio.  Per la Cowan-Erskine, d’altronde, non hanno scomodato solo Dame Agatha ma perfino Jane Austen.   

Che volete che vi dica, il suo umorismo sulfureo a me ricorda piuttosto Ivy Compton Burnett – Servo e Serva in particolare o piuttosto Un’eredità -, graffiante narratrice delle catastrofi che avvengono ogni giorno in qualsiasi interno alto borghese o nobiliare, perfida evocatrice delle nefandezze che accompagnano un’eredità.

Sia come sia, Loch Down Abbey è una lettura di divertita intelligenza, assolutamente da non perdere per chi voglia evadere qualche ora dalla realtà attuale, sconcertante come non mai. 

BETH COWAN-ERSKINE, americana, è sposata con un membro della famiglia scozzese dei conti di Mar, dall’albero genealogico più antico del suo paese d’origine. Traendo ispirazione dalla famiglia del marito, ha scritto Loch Down Abbey durante il primo lockdown, sperando che ciò sarebbe stato sufficiente per non essere più invitata all’annuale vacanza in famiglia. Purtroppo, invece, il libro ha portato solo a lunghe discussioni su chi interpreterà chi nel film da esso tratto. L’autrice scrive per The American Magazine e ha uno studio di architettura e design nei Cotswolds. I diritti cinematografici del romanzo sono stati acquisiti da una major americana ed è in lavorazione una serie tv.

Giusy Giulianini

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