MilanoNera intervista Alessandro Bertante

Errico Nebbiascura, figlio del fabbro anarchico di un paese della campagna alessandrina, è nato con un occhio viola, presagio di sventura. L’Italia del biennio rosso culla la sua adolescenza tra sogni di Rivoluzione, soffocati poi dall’avvento del fascismo. Ma la Spagna lo chiamerà alla guerra civile, accogliendolo nella “Columna de Hierro”, la leggendaria colonna anarchica del fronte aragonese, dove Errico conoscerà l’amore, la tragedia e l’abisso della sua anima di “Diavul”.
    
Al Diavul rompe un silenzio narrativo di otto anni. Cos’è successo nel frattempo, e qual è stato il percorso che ti ha portato a questa prova?
Dopo Malavida (2000, Leoncavallo Libri, ndr), un romanzo spudoratamente di formazione, ho virato verso la critica e il giornalismo. Entrambi i libri, comunque, con impianti e forme diverse nascono dalle esperienze della mia generazione, dei nati a fine anni sessanta; una fascia anagrafica allo sbando, sballottata da continui eventi traumatici: l’eroina, l’Aids, il costume sociale in radicale cambiamento, la caduta del sistema bipolare, Tangentopoli e l’avvento di Berlusconi. Siamo vissuti in un’esclusione politica: quella che prova anche Errico – modellato sui miei tratti somatici e caratteriali -  quando sale il fascismo.

La prosa è potente ma semplice, priva di asprezze o virtuosismi che mi aspetterei da un critico quando si cimenta col romanzo.
La chiarezza non è mai un limite; poi volevo recuperare quegli stilemi immediati per avvicinare il lettore, valori stilistici andati perduti dagli intellettuali postmoderni. E non dimentichiamo che la voce narrante appartiene a un fabbro: non potevo prendermi grandi libertà nella sua mimesi linguistica.

Molti scrittori evitano le interpretazioni politiche dei loro libri. Qui la presa di posizione è netta. Come ti poni rispetto alla questione?
Non ho paura: penso anzi che lo scrittore debba scendere nella disputa politica perché il suo ruolo nella comunicazione è prevalentemente marginale, il che gli consente uno sguardo più ampio, più rischi e maggior forza espressiva. Chiariamoci, l’impegno politico non è un dovere. Ma ora è il momento di farlo, di porsi grandi obiettivi e guardare la storia in faccia.

Al Diavul è anche una storia d’amore. Non sei il primo che imprime una tensione romantica alla guerra spagnola. Ma cos’è stato, veramente, questo conflitto? E perché le grandi storie d’amore letterarie devono avere un tragico epilogo per esistere?
Questa guerra è stata l’ultima occasione di rivoluzione europea, perché si perde il sogno del Sol dell’Avvenire socialista. I rivoluzionari furono in minoranza, per colpa anche dalla minaccia degli stalinisti. E non dobbiamo dimenticare che l’Italia ebbe le sue responsabilità inviando, insieme ai nazisti, truppe e armi ai nazionalisti, dando il colpo di grazia alla lotta popolare. È stata anche la più romantica delle battaglie. E l’amore di cui parlo è essenza stessa della storia, chimerico come la rivoluzione mancata. L’amore romantico è rimpianto.
                                                                                                                                   

Luca Ottolenghi

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