Delitto d’inverno – John Banville



John Banville
Delitto d’inverno
Guanda
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 Ogni nuovo libro di Banville è come una festa sia esso di genere o “letterario”, non fa nessuna differenza, perché ci si trova sempre davanti a un perfetto esempio di che cosa è vera letteratura, di come questa sappia sempre parlare di noi e a noi, attraverso i movimenti fisici e psicologici di personaggi che agiscono sulla scena di un crimine o di un amore, o di entrambi. Con una scrittura che ha il timbro della precisione chirurgica e dell’umorismo nero. Opportunamente in copertina viene ripreso il giudizio di Don DeLillo: “Un talento quasi feroce nel leggere l’anima degli uomini”. Si aggiunga il gusto balzacchiano di far circolare i personaggi fra i libri, sullo sfondo come il sovrintendente Hackett o addirittura con la semplice menzione del nome del dottor Quirke, anatomopatologo, protagonista in precedenza della serie di sei romanzi.

In apparenza i noir di Banville non hanno il crisma del romanzo sociale, piuttosto dell’intrigo familiare, del covo di serpi che si annida nell’intimità, ma con il progredire della vicenda finiscono ineluttabilmente con il precipitare nel dramma storico-sociale, come avviene anche in Delitto d’inverno. Nell’Irlanda del 1957, cattolica, clericale e bigotta, che sconta ancora il trauma della guerra di indipendenza, nella magione degradata di un ancora eminente signore protestante viene barbaramente ucciso un sacerdote cattolico amico del padrone di casa. A indagare viene mandato, per convenienza o rispetto degli equilibri geo-politici, un ispettore protestante che a dispetto delle apparenze ha tratti che lo avvicinano più che distanziarlo dal Marlowe di Chandler, che non a caso Banville ha magistralmente resuscitato e riscritto in La bionda dagli occhi neri. L’americano è un “duro” ma vulnerabile sotto la scorza, come l’irlandese, il quale, malgrado l’apparente disincanto, quando scompare misteriosamente il suo assistente sergente Jenkins va in crisi e non si darà pace. la loro, come dice Chandlder, è “la lotta di tutti gli uomini fondamentalmente onesti per guadagnarsi da vivere in un mondo corrotto”. Strafford non sa neanche perché ha scelto di fare il poliziotto in divisa anziché l’avvocato in toga. 

La soluzione del delitto è di per sé complicata, con solo cinque-sei persone che avrebbero avuto materialmente la possibilità e forse l’interesse di commetterlo: il colonnello padrone di casa, la moglie svanita, la figlia ribelle, il figlio ambiguo, la governante-cuoca, il cognato debosciato. Ma i conti non tornano, i fatti non si incastrano. Sulle indagini piomba la potente Chiesa Cattolica d’Irlanda addirittura nella persona dell’arcivescovo, che con “un freddo sorrisino tagliente” fa presente a Strafford quel che è più opportuno fare e lo congeda con un avvertimento: “Stia certo che terrò d’occhio i suoi progressi con la massima attenzione”. Si riferisce alle indagini o alla carriera? Si può mettere a tacere la Storia che si intreccia con piccole storie turpi di ragazze madri schiave nelle lavanderie delle suore, di figli bastardi rinchiusi in orfanatrofi lager e prede sessuali di sacerdoti-educatori? E quando vengono denunciati, il vescovo li sposta in un’altra parrocchia. È lì che bisognerebbe scavare. Un flashback di dieci anni prima, il monologo di uno sconosciuto ma riconoscibile, apre alla soluzione anche per il lettore. Che ora si pone la domanda: che cosa farà Strafford?

Fernando Rotondo

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