Il diritto dei lupi – Stefano De Bellis e Edgardo Fiorillo



Stefano De Bellis, Egardo Fiorillo
Il diritto dei lupi
Einaudi
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Si può proporre un thriller storico senza il timore di annoiare il lettore, a maggior ragione se il romanzo è assai corposo e supera le 700 pagine?
Evidentemente sì se si ha una storia coinvolgente da raccontare e gli autori esordienti, Stefano De Bellis ed Edgardo Fiorillo, nonostante il filone sia stato abbondantemente sviscerato in tutte le sue declinazione, hanno confezionato davvero un romanzo destinato a lasciare il segno. I due autori dimostrano di sapere il fatto loro e, oltre a una solida conoscenza della Roma antica, padroneggiano egregiamente le tecniche narrative e sono capaci di avvinghiare il lettore e proiettarlo sulla scena insieme ai loro personaggi, poco importa se realmente esistiti o inventati, al punto da farlo palpitare insieme a loro, far respirare gli odori quel tempo, le loro intenzioni, le emozioni.
E catturano fin dall’incipit: “Il rumore della cote sul ferro accarezzava i timpani dello sfregiato e lo aiutava a concentrarsi. L’uomo si prendeva cura delle sue siche come un leone dei suoi artigli: assecondava i sobbalzi del carro, facendo scorrere con studiata lentezza la pietra sopra le lame curve, si godeva il momento e intanto ripassava tra sé le cose da fare, organizzandole in una sequenza precisa. Affilava la sua determinazione a uccidere. Aveva una missione, e i tre che erano con lui per portarla a termine avrebbero eseguito i suoi ordini, nel rispetto della gerarchia bestiale che si era instaurata fra loro.”
Siamo a Roma, la sera del 3 gennaio dell’’80 a.C. e il gigante che affila le lame è alto almeno sette piedi (oltre due metri e dieci centimetri). E’ un trace guercio le cui armi dalle lame ricurve, le siche appunto, risultano tanto micidiali in combattimento. Con lui si muovono altri tre sicari: Puer, il più giovane, l’iberico e il germanico. Di lì a poco compiranno una strage nel lupanare “Fodero del gladio”, ancora non aperto, ma dove dei facoltosi clienti si intrattengono con giovani e bellissime lupe.  Solo Mezzo Asse, il più famoso titolare di lupanari romani, sfugge alla strage lanciandosi da una finestra e ricorrendo alle cure di Astragalo, ex legionario avvinazzato, per farsi rimettere in sesto la caviglia malconcia dopo il salto.
Marco Licinio Crasso, l’uomo politico più ricco di Roma, convoca il suo segugio, Tito Annio Tuscolano detto Molosso, ex centurione che non molla mai la preda, e lo incarica di ritrovare Mezzo Asse. Tra gli uomini assassinati vi è un greco, il Piccolo Alessandro, così detto perché somigliava ad Alessandro Magno, uomo di collegamento tra Crasso, Silla e Gneo Pompeo.
E qui si delinea il contesto storico, con Lucio Cornelio Silla, il Dictator che dopo aver preso il potere aveva emanato le famigerate liste di proscrizione dichiarando fuori legge tutti i nemici politici.
Il Molosso, la cui dolorosa storia personale affonda le radici nel non aver saputo difendere la madre da morte violenta,  ben presto si renderà conto che mezza Roma vuole rintracciare Mezzo Asse. E si farà affiancare nella ricerca del lenone proprio da Astragalo e da Claudio Ursio Gabello, giovane colosso gallo ma cittadino romano, animo puro e coraggiosissimo, votato alla castità per amore della sua bella che lo aspetta nelle terre del nord, e che con Astragalo, ubriacone e puttaniere incallito, darà vita a irresistibili e scintillanti dialoghi che rendono la lettura piacevolissima. 
Quella stessa notte, un giovane oratore destinato a restare nella storia, Marco Tullio Cicerone, viene convocato da Cecilia Metella Balearica Maggiore, potente sacerdotessa di Giunone. Il giovane oratore si era fatto notare nel Foro per avere duellato senza soccombere contro il più celebre oratore di Roma, Quinto Ortenzio Ortalo. La sacerdotessa gli chiederà di difendere Sesto Roscio, ricco proprietario terriero di Ameria, dalla più infamante delle accuse: parricidio. In caso di condanna, il colpevole veniva cucito in sacco con un cane, un serpente, una gallina e una scimmia, e buttato nel Tevere. Sarà quella causa che segnerà il vero esordio di Cicerone con la celebre Oratio pro Sexto Roscio Amerino (Orazione in difesa di Sesto Roscio di Ameria), per difendere il suo assistito dalla terribile accusa di parricidio, mentre i veri colpevoli si nascondono dietro il potentissimo Lucio Cornelio Crisogono,  liberto del Dictator Silla.
Altro non diremo della coinvolgente trama se non che le due storie, vissute dal lettore come se camminasse per le vie di Roma accanto ai personaggi e con loro gioire e soffrire, confluiranno in un’unica storia e ogni singolo elemento troverà il suo posto nella trama il cui ordito rende mirabile l’insieme regalandoci un affresco indimenticabile e realistico della Roma antica. Ed è questa la vera magia dei buoni libri, quella di lasciare sapore di buono anche quando non ci sono più pagine da girare, come il pane di una volta fatto in casa che si gusta con vero piacere, perché sazia e lascia soddisfatti senza appesantire.

Un accenno di dialogo tra Ortenzio e Cicerone che discutono di verità.

“La verità esiste, – rispose Cicerone in un greco ancora migliore.

I due presero a conversare nella lingua dei grandi filosofi.

– Quale verità? Ne esistono tante…

– Ma solo una è la vera verità! L’aletheia di Filone, come di molti altri filosofi, è una e in ogni suo aspetto unica.

– La verità critica, indagativa, un ideale dei grandi pensatori… È un mito non meno del Vello d’oro. Un meraviglioso modello al quale noi poveri mortali possiamo solo ispirarci nello scolpirne copie grossolane, un’immagine distorta dietro un vetro opaco. In definitiva, un trastullo teorico. E la teoria, mio caro amico, non fa per noi artigiani della parola e della legge.

– Cercare di avvicinarci quanto piú possibile all’aletheia non può essere considerato un semplice trastullo.

Aletheia, – disse Ortensio scandendone bene le sillabe. – Ciò che è stato mostrato, ciò che torna a essere evidente dopo che è stato nascosto o obliato, ciò che il filosofo, con la sua saggezza, ha riportato alla luce grazie alla sua dialettica investigativa. I filosofi hanno molto tempo, un’eternità, intere generazioni, per avvicinarsi a un concetto tanto alto e infinitamente distante. Ma noi non siamo filosofi. Come tradurresti aletheia nella nostra lingua?

– Autenticità, constatazione, evidenza, sincerità, vero, rigore, obiettività, oggettività, realtà, certezza, veracità, fedeltà, fede…

Ortensio interruppe l’elenco alzando la mano.

– Come si dice «fede» in latino?

Veritas, ma…

– La nostra veritas però è ciò che corrisponde alla realtà. Il che non vuol dire che sia necessariamente vero. È questo il punto, Cicerone: a noi romani importa ciò che è veritiero, verosimile. Ciò che per la maggioranza dei romani risponde al vero, nella percezione comune, corrisponde a veritas, concetto in cui ha un peso non da poco una buona dose di fede. Questo è lo strumento pratico, un surrogato dell’aletheia, certo, ma ben piú comune e impiegabile nel mondo mortale.”

Un libro che ci sentiamo di consigliare vivamente non solo a chi ama i thriller storici, che vivrà una doppia indagine, l’avventurosa ricerca di Mezzo Asse e dei colpevoli dell’eccidio al lupanare, e l’affannosa ricerca della verità di Cicerone per difendere il suo assistito, ma anche a chi vuole immergersi nella vera atmosfera dell’Urbe dell’80 avanti Cristo insieme a personaggi vivi da cui si fa fatica ad allontanarsi a libro ultimato.

E in queste parole, quando Silla si confronta col Molosso, a seguito del processo di Cicerone già concluso, e quando ormai tutte le carte sono sul tavolo, è racchiuso il senso stesso dell’effimero potere di cui Roma rappresenta il simbolo, e dell’amare disillusione di chi se ne serve quando il tempo si conclude.

“– È dall’epoca di Tarquinio il Superbo che a Roma non si vedeva un uomo tanto potente quanto me, e adesso pensano di potermi cacciare come è stato cacciato lui. Ma sono io a congedarmi –. Una pausa. – Anche se il mio volere è stato legge, alla fine non ho fatto altro che servire Roma, perché Roma mi voleva. Mi seduceva, mi trascinava legato al filo della mia ambizione. Oggi mi respinge, come un’amante annoiata. Questa belva inquieta, alle cui mammelle siamo tutti attaccati, mi respinge, e io non mi oppongo al suo volere. Nessun dio ti protegge da Roma, Tito –. 

Piegò il capo, come un fiore che appassisce. Tito ebbe la certezza di trovarsi di fronte a un uomo esausto.”

 Romanzo grandioso, da leggere. 

Roberto Mistretta

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