Incubo di strada



derek raymond
Incubo di strada
meridiano zero
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«Dei vecchi nei caffè – che sfogliano le fotografie dei nipoti o dei parenti defunti, sfilandole dal portafoglio per appoggiarle sul tavolo macchiato di vino e mostrarle a perfetti sconosciuti-, era a questo che si riduceva tutto? Era questa la ricompensa per aver corso il terribile rischio di vivere? Nessun premio? […] l’assurda filastrocca della vita andava avanti: la gente continuava a giocare a tennis, curare il giardino, tagliare l’erba, andare in banca, fumare il sigaro, bere whisky e raccontare pettegolezzi. Ma il senso di una vita qualunque, ne era certo, era il senso di qualunque vita.» (Derek Raymond, Incubo di strada, p. 89)

Parigi, metà anni 80; il quarantaquattrenne poliziotto Kleber viene sospeso dal servizio per motivi disciplinari; niente di grave: non finché ad aspettarlo a casa c’è la moglie Elenya… ma la vita lungo le strade della capitale sa essere dura con un ex-sbirro intransigente sempre pronto a combattere “la stessa battaglia”, e a “lottare per i vivi e per i morti” (soprattutto quelli “morti ingiustamente”; Ivi, p.7), anche a costo di farsi dei nemici. E, sulla strada, l’amicizia del piccolo criminale Mark, indimenticato compagno d’infanzia, rischia di rivelarsi insufficiente, o addirittura fatale…

Ambientato in una Parigi che, più che una geografia, è un insieme di direzioni, di semplici punti cardinali che formano un “comodo” palcoscenico (merito delle aperte “bassezze” osservabili lungo la linea di confine tra il III e il IV arrondissement, non a caso, scenario anche dell’ingiustamente misconosciuto “Crashville” di Pierre Bourgeade) per un’agiografia contemporanea -quella della bella martire Elenya, la cui dolente “santità” spicca ingigantita sullo sfondo della consueta depravazione raymondiana-, “Incubo di strada”, romanzo inedito del creatore della “Factory”, proposto oggi ai lettori italiani da Meridiano Zero, è stato scritto nel 1988 e originariamente pubblicato in esclusiva in Francia nella serie “Thriller” di Rivages (la prima edizione inglese è del 2006).

Se, da un punto di vista tematico, “Incubo di strada” propone una serie di elementi tipicamente raymondiani -dalla messa in campo di un detective ipertroficamente empatico (qui, questa caratteristica trova la sua più fortunata e sintetica formulazione : «Il senso dell’esistenza (se ce n’era uno) -si legge, infatti, a pagina 43- aveva cominciato ad apparirgli chiaro: bisognava identificarsi nell’altro»), impolitico fino all’autolesionismo e intollerante nei confronti di ogni gerarchia, alla descrizione dei bassifondi, dal totale disinteresse per la “detection” all’annullamento di ogni stratagemma banalmente poliziesco, e così via fino all’orrore dell’ospedale psichiatrico (qui, non tanto, o non solo manifestazione della fine del “soggetto vivente” -una sorta di morte prematura-, come nel caso delle visite alla moglie omicida del protagonista dei romanzi della Factory, ma anche supremo richiamo alla riflessione sul senso dell’esistenza e sull’heideggeriano “aver cura”)-, è nello stile della narrazione, che il Raymond inedito si rivela più sorprendente: si riconosce appena, dietro la “calma” voce narrante, la penna del creatore della Factory.

Generalmente pronto a “mostrare”, con crude descrizioni che catapultano, fin dalle prime pagine, il lettore nel bel mezzo della diegesi, Raymond adotta, qui, una tecnica opposta, costruita su un inatteso tono dichiarativo, che “racconta” il personaggio, muovendosi in maniera regolare attraverso un mosaico di dettagli (apparentemente) superflui, note biografiche, ricordi d’infanzia, constatazioni di dati di fatto, incubi, vecchie maledizioni, mezze riflessioni e citazioni bibliche; tanto è innocuo il tono del discorso (anche a dispetto del contenuto), che le prime, violente, battute di dialogo  ambientate nell’“oggi” del romanzo appaiono stridenti, quasi fuori posto.

Messa di fronte ad  una serie di eventi presentati come semplici “fatti naturali”, e spiazzata dalla dissonante durezza dei dialoghi, l’attenzione del lettore si ritrova distolta dal semplice “accadere”, e proiettata verso la dimensione morale che -come testimoniato dal continuo rimuginare di Kleber sul “valore della vita umana”, sul senso della colpa ecc.- costituisce il fulcro del romanzo; e così si comincia a distinguere, dietro al racconto espresso in terza persona e apparentemente affidato ad un narratore onnisciente, l’oggettivazione della voce del protagonista, che nell’auto-narrazione “mascherata” prende le distanze da se’, per riuscire ad afferrare (accettare?) la sua situazione, o semplicemente per vedersi più chiaramente.

E le frasi regolari, “indifferenti”  al corso degli eventi e quasi monotone, si rivelano come brani di una romantica melopea (non a caso il protagonista si “sorprende”  a parlare ad alta voce), elementi costitutivi di una lunga lamentazione funebre priva di coro e accompagnamento, che risolve il lutto per la perdita dell’amato con la morte dell’amante (e, nel  farlo, diviene una lucida e onesta orazione in memoria di se stessi).

E mentre il lettore, ormai assorbito dalla vicenda che ha rivelato il suo carattere tutto “interiore”, attende la fine del protagonista -una fine ormai “voluta” che, in un ennesimo, ironico, rovescio del destino, tarda ad arrivare- “Incubo di strada” si eleva ad un livello di coerenza superiore: trasformando la cronaca della dolorosa auto-educazione alla morte del protagonista nel testamento spirituale dell’autore (e ha ragione Marco Vicentini, traduttore oltre che editore del romanzo, a farlo notare nella sua breve ma evidentemente sentita nota conclusiva) finisce per realizzare la perfetta coincidenza tra autore e personaggio…

Fabrizio Fulio - Bragoni

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