Intervista a Alice Basso – Scrivere è un mestiere pericoloso

518vWFP7GFL._SX311_BO1,204,203,200_Nei tuoi libri c’è una commistione di generi, senza che uno prevarichi gli altri. Se dovessi scegliere quello che più s’addice alla tua penna, quale sceglieresti?
Intanto, grazie della domanda, perché mi piace tantissimo parlare della mescolanza dei generi nei miei libri e sono sempre felicissima quando qualcuno la nota e la apprezza! Guarda, vado per esclusione: il giallo da solo mi piace molto da leggere ma meno da scrivere (troppo cervellotico, tutti quegli indizi da disseminare e poi dissimulare… che fatica!); il rosa da solo, uh, no, per carità, diventerebbe stucchevole; la sottotrama di Morgana apporterebbe un tocco di young adults, che come genere non mi dispiace ma forse non è così rappresentativo; in ultima analisi, la sfaccettatura in cui mi riconosco di più è forse quella comica, che più che da una delle sottotrame è incarnata dallo stile generale del racconto e che quindi in effetti fa un po’ da elemento unificatore.

La tua protagonista, Vani, non ama molto le persone anche se, poi, non riesce a farne a meno. Vorrebbe vivere nel suo mondo di libri e storie, ma c’è sempre qualcuno che riesce a intaccare la facciata da dura e solitaria. Che rapporto hai con gente?
Io? Ottimo! Sul serio, in questo sono molto fortunata a non assomigliare a Vani, eh eh. Ti posso dire che una volta ero molto timida, poi col tempo mi sono resa conto che la gente non solo non morde, ma che mediamente è anche simpatica – e, anche quando non lo è, di solito è perlomeno interessante, nel senso che offre un sacco di materiali su cui riflettere e di cui far tesoro per i libri. E’ molto divertente e anche catartico descrivere Vani, ma riconosco di essere molto più fortunata di lei…

Vani non segue le mode, si veste sempre di nero e non si separa mai dal suo lungo impermeabile, non sa cucinare e il suo frigorifero è sempre vuoto. Che rapporto hai con il cibo, la cucina e la moda?
Mediamente terribile. Il cibo mi piace, e anche parecchio, ma solo se cucinato da altri. Io personalmente ai fornelli sono uno scandalo e tendo a trovare ottima qualsiasi cosa mi venga servita, per il solo fatto che viene da mani altrui; per dire, alle cene io sono il tipo di persona che compra il vino. Con la moda, idem: non seguo le tendenze, non leggo riviste, cerco di allenare il mio senso estetico ma di quando in quando mi accorgo di ritrovarmi attratta da roba che le mie amiche ritengono inguardabile, tipo certe calze a righe (che con grande rammarico solo quest’inverno ho deciso di non avere più l’età per mettere) o certe scarpe con il cinturino e la punta rotonda. Uno dei miei capi d’abbigliamento preferiti è una giacca di cuoio che sembra uscita da una pubblicità della Marlboro, informe e lisa da far schifo. A tutti, tranne che a me.

Vani è una ghostwriter, ama il suo lavoro, ma ha mai pensato di scrivere un suo romanzo? Che genere di libro scriverebbe?
All’inizio di “Scrivere è un mestiere pericoloso” Vani ha una conversazione con Morgana, la sua giovane amica quindicenne in cui lei si rivede moltissimo, che deve scrivere una canzone per la band del ragazzo di cui è innamorata e si è appena resa conto di non esserne in grado. Morgana, dice Vani, in un mondo di esibizionisti ha capito che scrivere di cose che dovrebbero venire da dentro di te non è roba per timidi. E si capisce che Vani ha lo stesso problema, condivide perfettamente il punto di vista di Morgana: quando c’è da guardarsi dentro e tirare fuori qualcosa di personale, si sente così vulnerabile da non sapere da che parte cominciare!

Sullo sfondo dei tuoi romanzi, pur senza essere mai risultare una presenza ingombrante, c’è Torino. Città nobile e misteriosa, che rapporti hai con la città? E con la sua vita notturna?
Oh, quanto amo Torino! Io sono originaria dell’hinterland milanese e a Torino sono venuta ad abitare solo una decina d’anni fa per lavoro; mi ero spostata con la sensazione che avrei trovato una città lievemente più rétro di Milano, con un’etica del lavoro ancora persistente e un fascino più antico. E così è stato! In più, l’ho subito trovata esteticamente bellissima (anche perché, essendoci approdata nell’inverno del 2006, ossia nel pieno delle Olimpiadi Invernali, l’ho conosciuta proprio nel momento in cui era più tirata a lucido). La cosa buffa, semmai, è che io tuttora non la conosco benissimo, topograficamente parlando: ci sono un saaaaacco di zone della città in cui ancora mi perdo. E i miei amici ridacchiano, perché ho scritto un romanzo che è un po’ anche un omaggio a Torino ma loro sanno che a Torino io a volte ho ancora bisogno dei ciceroni…

Nel tuo romanzo citi speso Manuel Vásquez Montalbán, Rex Stout, Simenon, Chandler e il suo Philip Marlowe, ma anche Dostoevskij. Quali sono i tuoi punti di riferimento letterari?
Anche questa domanda mi fa molto felice, perché, come avrai capito benissimo, i miei libri sono praticamente dei grandi e articolati pretesti per parlare dei miei amori letterari. Marlowe di sicuro, per partire da uno di quelli che hai menzionato anche tu, e Dostoevskij, che lessi davvero all’età in cui lo legge Vani, rimanendone altrettanto scossa; tutti gli americani della Grande Depressione che nomino in “L’imprevedibile piano” (Steinbeck e Fante in primis); e poi ce ne sono almeno un altro paio di molto importanti che però, se tutto va bene, vorrei farti scoprire nel terzo libro!

Dopo due romanzi con la stessa protagonista si può cominciare a parlare di personaggio seriale. Quali sono le possibilità e i limiti che la serialità può generare?
Angolino autobiografico: prima dell’uscita di “Scrivere è un mestiere pericoloso” ero molto preoccupata. “L’imprevedibile piano” aveva raccolto recensioni estremamente positive, che ruotavano però quasi tutte attorno al fatto che la protagonista, con il suo lavoro strambo e la sua personalità burbera, fosse “originale”. Ecco, mi dicevo: nel secondo romanzo, per forza di cose, questa originalità non potrà più esserci, perché le persone avranno già conosciuto Vani e il suo mondo. Ed ero convinta che questo si sarebbe rivelato un grosso limite. Invece ho scoperto che ritrovare un personaggio a cui ci si è affezionati piace ancora di più che incontrare qualcosa di “originale”, e questo mi ha tranquillizzata moltissimo!

Giochiamo un po’ con i personaggi del romanzo. In una trasposizione cinematografica, chi sceglieresti per interpretarli?
Ah, questa è una domanda che mi mette un sacco in crisi! Nel libro, anzi in tutti e due, dico esplicitamente che il commissario Berganza, per esempio, ha qualcosa del Robert De Niro di “Heat”: già attempato ma ancora decisamente affascinante, viso irregolare ma intenso, aria vissuta. Gli altri personaggi, però, Vani compresa, mi danno un sacco di problemi quando si tratta di indicare con certezza un interprete! Facciamo così: se Hollywood dovesse mai interessarsi, io lascio carta bianca, basta che mi invitino qualche volta a curiosare sul set!

Milanonera ringrazia Alice Basso per la disponibilità.

Ferdinando Pastori

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