Prima dell’intervento allo Iulm di Massimo Picozzi, in occasione della XXVII Edizione del Noir in Festival, la redazione di Milano Nera ha avuto l’occasione di rivolgere alcune domande all’autore di Profiler e Mente Criminale.
La cronaca nera è una possibile chiave di lettura della società? Gli omicidi cambiano a seconda delle epoche oppure a cambiare è la diffusione delle notizie e la percezione che ne abbiamo?
Allora, cambia la percezione. In qualunque occasione incontro i non addetti ai lavori, in molti sono convinti che ci siano sempre più episodi violenti. In realtà, quando si parla di omicidi volontari, in Italia non ne abbiamo avuti mai così pochi dal 1861. Quindi a cambiare è la percezione, non il modo di raccontare la cronaca nera. È un fattore collegato al moltiplicarsi dei contenitori televisivi e che riguarda meno i quotidiani e le riviste. Sono i programmi generalisti che rilanciano senza sosta – dal mattino alla sera – il caso al centro dell’attenzione. Una continua esposizione a delle informazioni che, tranne alcuni particolari, lascia agli spettatori la sensazione che non si arrivi mai a una soluzione.
Nei paesi occidentali più evoluti la percentuale di soluzione dei delitti volontari è intorno al 65 %, quindi nel 35% dei casi non si risolvono per alcuni fattori accidentali. Però i media hanno una responsabilità limitata, il loro è un concorso di colpa, perché trasmettono e parlano di quello che la gente vuole. La televisione propone quello che fa audience.
Una società senza tabù è più libera ma rischia di realizzare o instaurare una tremenda utopia. Penso a Manson e alla sua versione del sogno hippie. Lei pensa che sia un problema umano, non essendo possibile una emancipazione illuminata, o è una prerogativa dei soggetti con problemi e malattie mentali?
Lasciamo perdere la malattia mentale, non c’entra nulla. Si tratta di una sorta di aggressività innata, una capacità di odiare insita in ognuno di noi. Ci sono sempre meno reati violenti, omicidi e stupri, ci sono sempre più persone che provano un certo disagio, non tale da sconfinare nella malattia mentale, ma che sicuramente li pone in una situazione difficile che trova espressione nella rabbia e nell’odio.
Due merci in grande aumento nella nostra quotidianità.
Cosa differenzia un forte interesse per la cronaca nera da un’ossessione per essa?
Difficile dirlo. Quando lavoravo in un carcere di massima sicurezza, tra i detenuti, i film come “Palermo Milano – Solo andata” e altre pellicole simili erano quelle che più suscitavano il loro interesse. Mentre un medico non sopporta E.R. – medici in prima linea o Grey’s anatomy perché troppo perfetti, troppo belli, i professionisti del crimine erano assolutamente appassionati alle serie che li riguardavano, probabilmente loro hanno qualche ossessione.
L’uso dei social network ha cambiato le cose, perché ha trasformato il pubblico degli appassionati in un pubblico di commissari tecnici della nazionale; si scambiano botte da orbi metaforiche, non sempre metaforiche. Mi è successo di vedere come alcuni casi di cronaca molto dibattuti abbiano animato gli schieramenti sui social, sino al punto da minacciare gli opinionisti che avevano un’idea opposta.
Ecco, in situazioni del genere l’interesse diventa veramente un’ossessione.
Quanto è vicino un soggetto “normale” dal compiere un delitto? Esiste il raptus o il gesto estremo è sempre l’ultimo atto di una serie di eventi?
Il raptus è un bel termine giornalistico con cui il giornalista – che non sempre ha la possibilità di registrare e riportare le situazioni precedenti al delitto – riassume un fatto di cronaca. Quando si va a indagare o, nel mio caso, si viene chiamati a fare perizie psichiatriche ci si accorge che l’omicidio è l’ultimo atto di una vicenda che si trascinava da tempo, addirittura da anni. Il raptus non esiste e, nella gran parte dei casi, chi uccide o ferisce gravemente non ha un profilo patologico particolare in grado di togliere la capacità di intendere o volere.
Una statistica che ricordo sempre e riguarda i serial killer americani – perché sono lo stato in cui maggiormente si presenta l’attività di questi criminali – riporta che la perizia psichiatrica ha accertato l’incapacità di intendere e volere nel 1,5% dei casi.
Quindi, anche i serial killer – che non sono tra i soggetti più equilibrati – nel 98,5% dei casi vengono giudicati capaci di intendere e volere.
Alcuni sono convinti che la pena di morte sia un forte deterrente. È davvero così oppure esiste una prevenzione più efficace contro i crimini violenti?
La pena di morte non è mai un deterrente per il semplice fatto – anche banale – che nella maggior parte dei casi chi aggredisce, chi ferisce gravemente o uccide lo fa in un momento di impeto e, nel momento in cui colpisce, ha molti pensieri che lo trascinano verso la violenza ma, a causa di questo stato emozionale, non può soffermarsi a valutare le conseguenze del proprio gesto.
Comunque, gli Stati Uniti insegnano: il paese in cui la pena di morte è tra la più praticate non ha mai funzionato come deterrente.
Se vogliamo chiamare la pena di morte con un nome appropriato, si tratta di una vendetta sociale. Qualcuno potrà anche essere favorevole al fatto di punire in modo estremo una persona che ha compiuto un crimine atroce, che gli si debba restituire “pan per focaccia”, ma è una misura in cui non mi riconosco e che non condivido.
Ho lavorato parecchi anni in carcere e il tempo vissuto tra quelle mura è infinito. Quando mi chiedono se è possibile che in 20 anni, 25 una persona cambi, la mia risposta è che è possibile, non è scontato ma è possibile.
Milanonera ringrazia Massimo Picozzi per la disponibilità