1898. Elio Dossi, liquidato dalla fidanzata Carolina, figlia di un abbiente avvocato milanese che vuole per lei un marito molto ricco, mentre vaga disperato per via San Gregorio, si trova per caso coinvolto nel caos dei moti di rivolta operai, repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris. E nel momento in cui soccorre un ferito, viene arrestato dalla polizia che lo crede un sovversivo.
Il giorno dopo potrà uscire di prigione grazie ai buoni uffici e alle garanzie di suo cugino, Gandolfo Dossi di Mediglia, che però gli suggerisce di lasciare Milano e riparare a Lugano fino a quando le acque non si saranno calmate.
In Svizzera conosce e simpatizza con tre giovani americani, due fratelli Chris e Darlene Warren, e un amico in vacanza in Europa, li segue a Zermatt, dove a loro si unisce Jean Gardel, un bravo scalatore francese quindi, tutti insieme, si lasciano trascinare in una rischiosa spedizione archeologica. Il loro gruppo guidato da Sir Cedric Barret, accompagnato dalla Lady Ann, la sua bella moglie e da due servitori – nove persone in totale – parte alla volta di Costantinopoli per poi raggiungere la zona più orientale della Turchia, quasi al confine con la Russia, occupata dagli Armeni. Lo scopo del loro avventuroso viaggio è trovare le tracce dell’Arca di Noè, che secondo diverse interpretazioni bibliche e i diari di Marco Polo, dovrebbe essere sepolta tra i ghiacciai del monte Ararat.
I membri della spedizione – che tutti hanno qualche pena o segreto da nascondere -, viaggiando nei territori dell’Impero Ottomano da anni in preda a sanguinosi disordini per conflitti religiosi interni, dovranno affrontare disagi e pericoli. E mentre avanzano faticosamente verso la meta della loro impresa, verranno ostacolati dalla barbara guerriglia in atto sul territorio e sconvolti dal massacro di migliaia di armeni, ad opera di bande di musulmani protette dagli hamidiani, spietati scherani del sultano Abdul Hamid…
Tra i personaggi della storia da citare: il lottatore, il colosso Aganesian, disposto all’estremo sacrificio per difendere e vendicare i suoi compatrioti; l’educatissimo ma crudele capitano turco Demir, gelido esponente dei giovani ribelli che sogna un impero etnicamente “pulito”; il colto, generoso ma sfortunato dottor Katurian, la sua famiglia e soprattutto Helena, la figlia diciottenne. Un romanzo avventuroso, dai toni squisitamente ottocenteschi e in cui le piccole storie personali si intrecciano con la storia di un popolo ancora oggi perseguitato.
Castelli, affermato autore storico che finora si è dedicato al passato più lontano, affronta stavolta, con orgoglioso piglio alla Jules Verne, qualcosa a noi più vicino che ci riporta alla fine dell’800. Per farlo ci accompagna in oriente, alle estreme propaggini della Turchia verso nord est, per secoli territori remoti, in preda a conflitti, disordini e rivoluzioni per romanzare un argomento spinoso che ancora angustia e intriga colleghi e politici. Lo spaventoso stillicidio dell’efferato eccidio degli armeni ad opera della Turchia iniziato nel lontano 1895 all’ombra dell’Ararat.
Con minuziosa e solida documentazione storica, arricchita dalla sua creatività mentale che sa coinvolgere e appassionare il lettore, Castelli anticipa il contenuto della sua opera narrativa, che descrive come una biografia romanzata, spiegando in una articolata premessa:
«Questo romanzo è un collage dei racconti fatti da Elio Dossi, un cugino di mio nonno materno morto nel 1961. Quando ero ragazzo, tra l’ultima settimana di agosto e l’inizio delle scuole, trascorrevo alcuni giorni nella sua casa appollaiata tra filari di vite sulle pendici di una collina affacciata a mezzogiorno. Da là si dominava un’ansa del lago d’Iseo. Si trattava di una vecchia uccellanda alla quale erano stati aggiunti vari corpi e, nel corso dei decenni prima della seconda guerra mondiale, era stata trasformata in una vera e propria villetta. A ogni stagione il racconto riprendeva dall’inizio ed era sostanzialmente lo stesso del precedente tranne nuovi particolari che mi permettevano nuove domande. Credo, però, che a lui premesse soprattutto parlare con struggente nostalgia di sua moglie, morta prima della guerra. Una donna bellissima che a me sembrava nascondere un’ombra di misteriosa tristezza, almeno a giudicare dalle vecchie fotografie. La mia ricostruzione è sostanzialmente fedele tranne il finale perché sulla conclusione di quella drammatica avventura lo “zio” Elio era piuttosto reticente. Nel romanzo è lui, comunque, a parlare al lettore esattamente come faceva con me. Quindi mi scuso se troverà il linguaggio un po’ antiquato. Era quello dell’inizio del secolo scorso».
La battaglia sulla montagna di Dio
Patrizia Debicke