L’incipit è fulminante, anche se a essere sinceri è piuttosto consueto. Una giovane donna che si era incautamente lasciata sedurre da un affascinante bellone fino a seguirlo nella sua camera d’albergo dopo una cena romantica, scopre con orrore che il seduttore è complice di una banda criminale.
La ragazza, ovviamente ricca, appena svanisce l’effetto dell’anestetico che le hanno iniettato per portarla fuori, apre gli occhi su una situazione da incubo. È chiusa dentro una cassa che, caricata su un’imbarcazione, viene trasportata chissà dove.
Dentro la cassa, a tenerle compagnia, c’è un cadavere.
Siamo a Venezia, la città-museo più bella e misteriosa d’ Europa, splendida e putrescente, placida all’apparenza, in realtà percorsa da pericolose correnti di violenza che si celano sotto le increspature dell’acqua immobile della laguna, correnti di cui i turisti non hanno il minimo sentore.
Dieci anni dopo quel rapimento finito in tragedia perché la sequestrata muore nell’incendio del palazzo in cui era stata nascosta la cassa, la giovane scrittrice Margot Amati, soprannominata “la ragazza in giallo” sia per il genere letterario a cui appartengono le sue opere, sia perché si è ritrovata più volte a dare una mano alla polizia (e te pareva!), viene invitata dalla marchesa Nancy Gradenigo, veneziana, a un sontuoso ballo in maschera organizzato dal marito di lei, Pietro, in un palazzo principesco affacciato sul Canal Grande. Per l’occasione dovrà indossare un favoloso abito del ‘700, un vintage d’antiquariato di grande valore, e lasciarsi truccare e acconciare come una dama dell’epoca dei Lumi, con tanto di mascherina e ventaglio. Ma il tocco di classe è rappresentate da lenti a contatto colorate che le trasformano gli occhi in due smeraldi.
Al ballo Margot si trova suo malgrado ad assistere al quasi svenimento di una signora anziana, anche lei blasonata, che appena la scrittrice le viene presentata ha un mancamento. Il motivo le viene subito spiegato. Margot, così abbigliata, è il ritratto vivente di Susanna Balbi, l’incauta ragazza sequestrata dieci anni prima e poi morta nell’incendio, mentre la signora quasi caduta in deliquio era la madre adottiva.
A quel punto Margot capisce il motivo dell’invito che all’inizio aveva narcisisticamente attribuito alla sua fama di autrice di successo: la marchesa Nancy Gradenigo vuole coinvolgerla nell’indagine sul rapimento di Susanna, perché arrivi là dove la polizia ha fallito. Ma di chi è il cadavere chiuso nella cassa con la sequestrata?
Non si può aggiungere altro su quest’opera che in realtà ha più i contorni del romanzo d’appendice che del thriller.
Scritto con uno stile affascinante e brillante, come del resto si addice a una grande professionista come Silvana Giacobini, direttrice storica” del settimanale Gioia e “madre” del popolare Chi, La schiava bianca ha diversi punti deboli, contrastati però da grandi pregi.
Fra i punti deboli c’è la fragilità della trama, basata su meccanismi scontati come le lettere anonime, una paternità segreta (figuriamoci a Venezia! ), le somiglianze, gli spioncini nascosti, i troppi delitti in città… Tutti elementi apparentemente casuali, slegati, ma in realtà uniti da una logica precisa, anzi, geometrica.
Fra i pregi c’è invece la descrizione di una Venezia magnifica e decadente. Niente a che vedere con Thomas Mann di Morte a Venezia, eh! ma comunque notevole. Poi la ricostruzione di una vera festa principesca in costume, con tanto di sartoria, trucco e parrucco per gli invitati, come se invece di partecipare a un ballo avessero dovuto salire su un set.
E c’è anche un’infinità di citazioni colte, che spaziano dall’arte alla storia, dall’architettura al costume, tutte offerte ai lettori con garbo.
Nel complesso si tratta di un bel romanzo dal ritmo lento e meditato, che si può gustare più per l’atmosfera che per la trama, che pure è gradevole, e nasconde piccole sorprese tratte dalla quotidianità dei super ricchi, e perfino dal gossip riguardante il gotha della mondanità internazionale.
Adele Marini