La versione di Fenoglio



Gianrico Carofiglio
La versione di Fenoglio
Einaudi
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Di solito, quando leggo per recensire, evidenzio in giallo i brani salienti. Per fissarli in mente e citarli all’occorrenza. Gianrico Carofiglio con La versione di Fenoglio  mi ha  costretto a colorare intere pagine.
Lungo racconto forse più che romanzo, poche ore di lettura soltanto, eppure quanta realtà tra le sue pagine e quale appassionata riflessione sul senso di un mestiere, l’indagine criminale, che è anche ricerca di verità in un’esistenza vissuta tra interrogativi interiori e universo esterno.
Fiacco e scoraggiato in prossimità della pensione, il maresciallo Pietro Fenoglio – piemontese in servizio nel Sud delle mafie e già protagonista di due precedenti romanzi dell’autore, Una mutevole verità (Einaudi, Stile libero, 2014) e L’estate fredda (Einaudi, Stile libero big, 2016) – si sottopone a un lungo percorso riabilitativo dopo un intervento di protesi all’anca, sotto lo sguardo benevolo e stuzzicante della fisioterapista Bruna. Proprio lei, conscia di quanto la guarigione del corpo sia assecondata da stimoli intellettuali, gli affianca Giulio, un ventenne che in seguito a un incidente stradale ha subito il medesimo intervento e che appare smarrito e disilluso quanto il maresciallo ultra cinquantenne.
Seduta dopo seduta, piegamenti salite discese e passeggiate, i due finiscono per scoprirsi sempre più affini e coinvolti in un percorso che non è solo tentativo di comprensione della realtà ma anche e soprattutto esplorazione interiore.
Già, perché il maresciallo, davanti a quel ragazzo chiuso e disorientato, scopre di possedere insospettate doti maieutiche che, attraverso il fluire del racconto di alcuni suoi vecchi casi, stimoleranno Giulio a una sofferta decodifica del suo smarrito malessere e alla scoperta di quanto prezioso sia il valore del dubbio e il rifiuto di verità assolute.
Un racconto di formazione, questo La versione di Fenoglio, in cui ogni riga, periodo, capitolo trasuda pregnanti riflessioni su investigazione criminale e scrittura, ricerca della giustizia e interpretazione della realtà.
Un eroe imperfetto, il maresciallo, che volge alla vita e al mestiere uno sguardo privo di convinzioni preconcette, che dubita anzi senza sosta, e in questo incessante interrogativo trova la quadra di ogni sua indagine. Senza formulare giudizi morali, perché i peggiori investigatori sono appunto i moralisti, ingessati nel loro assoluto e dunque incapaci di comprendere le ragioni di un reato.
Umanissimo, Pietro Fenoglio, che per sollevare lo spirito dalle brutture della vita se ne va al museo, di fianco alla caserma, e cita Grosz e Carrà, Borges, Lussu e Bela Bartock. Senza enfasi né compiacimento, anzi con quella disadorna famigliarità che deriva unicamente dalla consuetudine. Un bell’omaggio all’immagine dell’Arma che da pochi anni ha festeggiato il duecentesimo anniversario dalla sua fondazione.
Umanissimo Fenoglio che non disdegna la compagnia di Giulio, un ventenne mirabilmente disegnato con “la bella faccia da attor giovane, uno sguardo in bilico fra la timidezza e l’arroganza”, estremi emotivi questi che appartengono di diritto alla giovinezza e si traducono per lui in una lunga e sofferta stagione di dubbio.
E nel dubbio, quello metodico di Pietro e quello irrisolto di Giulio, il maresciallo e il ragazzo s’incontrano e si ritrovano, ognuno con il proprio fardello di vita, “come due compagni di scuola al termine delle lezioni”, in un percorso di riabilitazione concreta che è anche metafora di vita.
Il loro dialogo, profondo e curioso, tocca punte altissime di condivisione, in cui l’ego è bandito dal rapporto e oratore e ascoltatore di continuo si scambiano il ruolo.
Il maresciallo racconta le sue indagini e finisce per svelare a Giulio quanto l’investigazione somigli al raccontare: entrambe le attività hanno molto a che dividere con le parole e con la capacità di immaginare una storia, indagine o finzione non importa. L’osservazione attenta e scrupolosa è presupposto di entrambe, per decifrare un disegno criminale o per “registrare cose che hanno visto tutti e mostrarle come se fosse la prima volta”.
Si parla tanto di scrittura in quest’opera, da parte di Fenoglio o di Giulio, tanto da suggerire un parallelo con Diker e La verità sul caso Harry Queber. E’ solo un attimo però: certo anche là esistono un mentore e un allievo e molte lezioni di scrittura che vogliono essere lezioni di vita. L’analogia però finisce qui, ben altre sono sincerità e onestà intellettuale di questa opera di Carofiglio. E, aggiungo, ampiezza di sguardo sul mondo che senza dubbio gli deriva dal suo triplice angolo di visuale: magistrato, politico, scrittore.
Da ultima, una notazione di stile: semplice e profondo, mai compiaciuto, mai casuale. E, nel mostrare di aver accolto almeno una delle Dieci regole di scrittura di Elmore Leonard, quella relativa all’impiego nel dialogo del solo verbo dire, riesce a conferire al lemma una duttilità e un’ampiezza di sfumature che appartengono solo ai grandi maestri.

Giusy Giulianini

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