L’eleganza del riccio



muriel barbery
L’eleganza del riccio
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Se per Dostoevskij sarà la bellezza a salvare il mondo, per Barbery Muriel è l’eleganza, ovvero quell’atteggiamento di spontanea gentilezza e delicata apertura dell’anima nei confronti prima di tutto di se stessi, e in secondo luogo verso gli altri.
Questo libro non è un capolavoro, ma, nonostante ciò, non si può non riconoscergli un certo fascino di fondo, genuino come solo le fiabe sanno esserlo: diretto, perché fatto di personaggi riconoscibili, poco comuni che si fanno portatori di valori in maniera estrema.
Come la protagonista, Reneè Michel, la burbera portinaia di un elegante palazzo francese, che si finge incolta ma nasconde nel suo cuore l’emozione di essere stata per un po’ sul treno dell’incontro tra Vronskij e Anna Karenina; conoscitrice di Kant e Hegel, recita una parte per non distruggere l’equilibrio precario di chi in un sistema fatto di classi sociali crede ancora e trova rifugio e conforto.

Nasconderà la sua natura finché non incontrerà chi come lei porta una maschera, Paloma, una ragazzina di tredici anni, inquilina dello stesso palazzo e facente parte di una famiglia abbiente, che si suiciderà il giorno del suo tredicesimo compleanno poiché circondata da genitori e da una sorella che fingono di vivere, così come tutta la società.
I due cammini di vita si incroceranno grazie ad un terzo, quello del nuovo inquilino giapponese che subentrerà in un secondo momento, che con la raffinatezza tutta orientale saprà guardare al di là delle barrire alzate, scoprendo due anime speculari e simili che impareranno tante cose…
La struttura del libro è paziente, priva di fretta; lo svolgersi delle azioni è lento senza essere soporifero.
Tutto si svolge con naturalezza, e in ciò è insito buona parte del merito di questa scrittrice e filosofa francese, che mostra di conoscere perfettamente le tempistiche umane dell’elaborazione dei atti, della maturazione dell’esistere.

Traendo spunto dalla delicata scansione del tempo della cultura giapponese, svela piano piano l’ evoluzione dei personaggi, inizialmente immatura per quel loro desiderio di escludere il mondo dai propri meccanismi mentali e vitali, per il tentativo forse talvolta spocchioso di marcare la differenza netta che intercorre tra la loro cultura ed etica e quella degli altri superficiali; maturano, si conoscono, integrano il loro esistere con l’esistenza degli altri, accettando se stessi e la propria diversità.
Forse è questo il messaggio che è sfuggito alla maggior parte dei lettori: il romanzo probabilmente non vuole essere una favola in cui i più puri e i meno materiali vincono; la vera vittoria consiste nell’apertura nei confronti degli altri e soprattutto di se stessi, accettando la propria diversità, insita in ogni particolare e presente in tutti.

Il messaggio di fondo del romanzo ha però una falla, seppur di minima profondità: non estende questo concetto a tutta l’umanità.
L’apertura nei confronti degli altri avviene solo tra i tre protagonisti, che sono dei simili, escludendo tutti gli altri possibili superficiali da qualsiasi possibilità di redenzione agli occhi del lettore.
La diversità tra loro e gli altri viene così marcata, riportando il lettore alla dimensione della realtà dopo aver trascorso praticamente tutto il tempo narrativo in quello della fiaba dolce amara.
Ma si sa, le fiabe rimangono tali anche se il protagonista è un orco o se la fatina è in sovrappeso: a quel punto che importanza ha se tutti vissero separati? L’importante è che vissero felici e contenti o, per lo meno, che abbiano le possibilità di esserlo in futuro dopo la comprensione reale di ciò che nella vita vale davvero e di quanto la vita in sé sia preziosa, da vivere fino in fondo, a dispetto di tutto ciò che non va come dovrebbe.

angelica scardigno

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