Lorenzo Fazio: per dire la verità ci vuole coraggio

Intervista all’editore di Chiarelettere, casa editrice milanese diventata “di culto ” grazie alla pubblicazione di libri dossier duri, scomodi e pieni di coraggio.

C’è nell’aria una certa voglia di verità. Il pensiero unico nazionale non basta più. Le notizie ufficiali non convincono. Il lungo sonno delle coscienze e della ragione comincia a scivolare cautamente verso il risveglio. Se questo miracolo sta accadendo lo si deve a chi la verità la va a cercare là dove si nasconde: nei faldoni sepolti dentro gli archivi giudiziari, nella memoria di chi sa, di chi ha visto, di chi ricorda e soprattutto nella logica che scaturisce dalla sequenza dei fatti. Operazione, quest’ultima, che non ha tanto bisogno di indagini e di scavi, quanto di memoria. Pura e semplice memoria degli accadimenti, per poterli mettere uno in fila all’altro e ricavarne la spiegazione di certi misteri che, in fondo, lo sono stati soltanto perché questo Paese soffre di una malattia cronica chiamata smemoratezza.

E’ così che si spiega il successo dei libri-inchiesta pubblicati da case editrici indipendenti e coraggiose come Chiarelettere, diventata negli ultimi anni un vero e proprio fenomeno editoriale: c’è una moltitudine sempre più folta di cittadini che non è più disposta a credere che i magistrati siano tutti bolscevichi e che i giornalisti siano farabutti e, a mano a mano procede la lenta fase del risveglio, quella moltitudine va ad aggiungersi alla metà del Paese che non ci ha mai creduto.

Per annusare l’aria e capire se chi vive in Italia è davvero interessato a conoscere la verità vera, non quella di comodo ammannita ogni giorno dai tigì, abbiamo incontrato Lorenzo Fazio, il giovane ma agguerrito editore di Chiarelettere, la già citata casa editrice milanese specializzata nella pubblicazione di libri d’indagine. Libri che sono spesso la naturale continuazione sulla carta di inchieste giudiziarie affossate, mai partite, arenate. Come dire: là dove si sono fermati i magistrati, continuano i giornalisti. Libri scomodi e a rischio non stop di querela per chi li pubblica.

Dottor Fazio, lei ha dato vita a libri inchiesta che stanno facendo luce su episodi oscuri, ambigui e fuorvianti della nostra storia recente. Libri come Vaticano Spa, Il regalo di Berlusconi, L’agenda rossa di Paolo Borsellino sono vere e proprie deflagrazioni nel panorama editoriale. Cosa l’ha spinta a rischiare tanto?
Mi ha spinto la passione, la vera molla di questo mestiere così particolare, per molti aspetti artigianale e antico, per altri votato a guardare sempre al futuro, alla realtà che cambia. Una passione che viene da lontano come professionista che lavora nel campo dell’editoria da venticinque anni e come cittadino che non ci sta ad accettare che l’Italia possa precipitare così in basso, tradendo gli ideali di tante persone perbene che hanno anche sacrificato la loro vita. La domanda di molti: che cosa si può fare? Ecco io ho risposto così, fondando Chiarelettere, un marchio autonomo, di cui io stesso sono azionista, e puntando tutto sulla libertà di informazione e di pensiero, senza mettermi addosso distintivi, etichette e senza riconoscermi in una parte politica. Quando faccio un libro non mi domando a chi potrà giovare o chi potrà danneggiare. Lo faccio e basta. Perché penso che contenga un pezzetto di verità da far conoscere. Verità documentata, ovviamente, come Vaticano Spa di Nuzzi, che per la prima volta consente di entrare dentro le finanze del Papa e capire lo scandalo dello Ior, o come Il regalo di Berlusconi di Mascali e Gomez, che fotografa benissimo il sistema attraverso cui gestire fondi neri e agire impuniti.

Parliamo di L’agenda rossa di Paolo Borsellino, del duo di cronisti dell’Ansa di Palermo Lo Bianco-Rizza. La Prima edizione è uscita nel giugno 2007, a indagini arenate. Si aspettava che le rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, e quelle del pentito Spatuzza confermassero punto per punto quello che è stato messo nero su bianco ben due anni fa?
A volte basta leggere bene le carte dei processi, le testimonianze, usando la memoria e mettendo insieme i pezzi di un puzzle che è lì, a disposizione di tutti ma che nessuno vede. Rizza e Lo Bianco hanno fatto questo lavoro, che è il lavoro di due giornalisti onesti e bravi e che, però, hanno molte difficoltà a scrivere sui grandi giornali. Eppure quanto sta venendo fuori dalle testimonianze di Massimo Ciancimino e Spatuzza non solo conferma che in via D’Amelio c’erano altre persone oltre a quelle già identificate e che tutto porta a pensare che la mafia ha molte facce, a volte troppo simili a quelle di politici e uomini delle istituzioni che hanno perso il senso dello Stato e non rispettano la legalità, tradendo la fiducia di noi cittadini, dei giovani che hanno bisogno di modelli positivi da imitare. Stiamo arrivando ai piani alti della politica, la mafia bianca, quella che non spara ma fa sparare.

All’indomani della pubblicazione di libri come Vaticano Spa, L’anello della repubblica, Il partito del cemento, Profondo nero…dovrebbero scattare le manette perché contengono notizie di reato e l’obbligatorietà dell’azione penale non è ancora stata soppressa. Perché non succede?
Prima che scattino le manette, dovrebbe essere la politica ad arginare e a emarginare chi agisce fuori delle regole. Questo è un punto centrale, non possiamo demandare alla magistratura un impegno che dovrebbe riguardare i nostri politici e noi stessi come collettività. Se pochi reagiscono è perchè c’è un sentimento diffuso di impunità, vuol dire che anche il singolo pensa che sia meglio farsi furbi e agire pensando solo al proprio tornaconto immediato, piuttosto che provare a credere nello Stato, che è nostro, a partire dai giardini che abbiamo sotto casa fino ai treni che usiamo e sporchiamo. Non può esserci sempre qualcun altro che deve fare, siamo noi che dobbiamo fare. Quando attraversiamo la strada, se le auto non si fermano e non ci fanno passare ci arrabbiamo, ma siamo sicuri di non fare altrettanto noi quando siamo sulla nostra auto? Qui interviene anche il ruolo della stampa e della Tv, che dovrebbero sensibilizzare le persone e renderle più partecipi: noi abbiamo fatto un libro, L’anello della Repubblica, in cui si documenta l’esistenza di un servizio segreto che ha operato da dopo la guerra fino agli anni Ottanta del quale e di cui non si è mai parlato. Il libro non è stato recensito da nessun grande giornale e dalla tv. Perché? I cittadini per poter reagire devono essere informati. Una democrazia senza informazione o con una informazione limitata non funziona.

Dai vostri dati di vendita avrete certamente un’idea ben chiara di quello che i cittadini vogliono sapere. Quali sono gli argomenti che interessano di più?
Non tutti i libri inchiesta vendono e non basta l’attualità a rendere appetibile un saggio commercialmente parlando. Più l’argomento è circostanziato e localizzato, più è difficile raggiungere un pubblico vasto. Ma se quel problema particolare, quella città (possono essere gli stipendi dei manager in La paga dei padroni di Meletti e Dragoni o il caso della Liguria in Il partito del cemento di Sansa e Preve) diventano modelli interpretativi e acquistano significato politico in senso generale, allora il libro potrà avere un buon successo. Così, la testimonianza di una singola persona, come per esempio quella di Scarpinato in Il ritorno del Principe, se affronta problemi di portata complessiva (la mafia e il problema della corruzione dello Stato), può aiutare il lettore a entrare più facilmente dentro un tema e capirne meglio tutte le sfaccettature.
I libri che abbiamo venduto di più finora sono quello di Nuzzi, Vaticano spa, che si appoggia per lo più alle carte segrete dell’archivio di monsignor Dardozzi, e Se li conosci li eviti di Gomez e Travaglio, che ricostruisce le biografie dei parlamentari. In quest’ultimo caso è bastato riannodare fatti dimenticati per offrire un quadro allarmante di come e da chi siamo rappresentati.

Quali, secondo voi, riescono a smuovere le coscienze?
Da soli, i libri non ce la fanno a smuovere le coscienze delle persone, vanno aiutati, sostenuti da altri mezzi. Il libro è al centro di un universo della comunicazione che va utilizzato al meglio, in tutte le sue componenti, così si arriva più facilmente a diversi tipi di lettori. Pensiamo al web soprattutto, che è uno spazio usato molto dai giovani. Se non avessero avuto l’aiuto della rete, i nostri libri avrebbero faticato molto di più perché spesso giornali e tv li hanno ignorati. L’effetto di rimbalzo di un messaggio sui blog di Chiarelettere è efficace e costa poco. I nostri blog sono molto frequentati e ora abbiamo anche una partecipazione nel giornale Il Fatto quotidiano che insieme alla rete e ai libri rappresenta un’altra occasione per veicolare un’informazione che altrimenti rimarrebbe confinata su pochi mezzi e sarebbe gravemente limitata.

Come si difendono i personaggi “attaccati” dai vostri libri-dossier?
Spesso le persone attaccate provano a reagire usando la denuncia legale senza avere un reale motivo a loro difesa. I documenti sono indiscutibili, ma magari un aggettivo, una frase costruita in un certo modo, possono risultare offensive e quindi diventare oggetto di una contesa legale. Sappiamo bene i rischi che corriamo e quindi cerchiamo di tutelarci anche da questo punto di vista, ma non sempre l’autore è disposto a rinunciare alla propria scelta stilistica e allora ci si confronta e insieme si trova la soluzione. Anche gli avvocati ci aiutano: il criterio è quello di non rinunciare mai a mettere sulla carta le verità provate, ma facendo attenzione a non esagerare nei toni. Anche perché le nude verità non hanno bisogno di aggettivi.

Come si difende la casa editrice da loro?
L’unico modo per difenderci è quello di cercare di essere il più possibile documentati e rigorosi. E avere buoni avvocati. Le querele spesso sono fatte a scopo intimidatorio, purtroppo costano e richiedono tempo e applicazione. Lo sappiamo noi e lo sanno gli autori.

Qual è il vostro target?
C’è uno zoccolo duro di lettori molto informati e attenti che vogliono saperne ancora di più, che non si fidano più di giornali e tv, che magari navigano sulla rete e leggono Internazionale e i libri che consentono di approfondire un argomento, una serie di eventi. Pensiamo alle nuove generazioni che magari sanno a malapena chi era Aldo Moro o le Br. Noi pensiamo a loro, non ai direttori di giornale o ai politici o agli uomini che occupano poltrone importanti. Qualche volta i responsabili di giornali autorevoli ci chiedono se nel libro che stiamo pubblicando ci sono novità importanti. Spesso ci tocca rispondere che non ce sono, e che la vera novità è il montaggio di fatti prima malamente raccontati e già dimenticati. E’ il montaggio che da senso al tutto, a una storia, non importa che non ci sia lo scoop. Quello serve solo ai giornalisti, non interessa ai lettori.

In Italia si legge davvero così poco come certa informazione vorrebbe far credere?
I dati sulla lettura in Italia continuano a essere preoccupanti. Più della metà degli italiani non legge neanche un libro all’anno, e questo è grave per un paese che vuole recitare un ruolo importante in Europa e nel mondo. Il dato generale però andrebbe analizzato meglio: infatti se consideriamo gli indici di lettura nelle regioni del nord, dell’Emilia Romagna e della Toscana, potremmo verificare che non sono dissimili da quelli riscontrati in altri Stati europei più progrediti di noi (Germania, Francia, Inghilterra). Sono soprattutto gli indici del Sud che fanno precipitare la situazione e che ci pongono tra gli ultimi in Europa, e che sono ampiamente spiegabili per l’assenza di librerie sul territorio. Pensiamo alla Calabria, alla Basilicata, a certe zone della Campania: qui è difficile trovare librerie fornite, mentre a Palermo e Napoli si moltiplicano le Feltrinelli e c’è una buona rete di librerie. Intorno, il deserto. Vanno quindi incentivate tutte le iniziative volte a costruire un tessuto culturale, una rete che promuova la lettura e favorisca l’apertura al sud di nuovi punti di vendita. Non è un caso che Chiarelettere abbia voluto organizzare a Marsala una tre giorni dedicata al Giornalismo d’inchiesta che nel maggio scorso ha visto la partecipazione di molti cittadini, anche giovani: un modo per stimolare la lettura con mezzi diversi: dai libri alla musica, al teatro.

Una provocazione: lei si sente un bolscevico?
No, non sono un bolscevico, non lo sono mai stato. Mi sono trovato sempre a disagio in mezzo alle assemblee e i cortei degli anni Settanta e Ottanta. Non riuscivo a identificarmi con nessuno, nemmeno con il Pci di allora. Non sono un politico e non mi interessa molto il dibattito politico, le polemiche tra i partiti. Credo invece nell’impegno civile, nel ruolo degli intellettuali e degli editori, che è fondamentale per una democrazia. Soprattutto come la nostra, così opaca e piena di ombre e segreti: come nuotare in acque paludose senza riuscire a vedere oltre se stessi

adele marini

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