L’uomo che morì due volte – Richard Osman



Richard Osman
L’uomo che morì due volte
Sem
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La migliore recensione l’ha scritta, involontariamente, la Regina Elisabetta rifiutando in questi giorni il premio come “Anziana dell’anno” perché “vecchio è chi si sente tale”. Probabilmente in questo caso anche Elizabeth, Joyce, Ron e Ibrahim l’avrebbero applaudita. O a pensarci bene probabilmente Joyce no: rifiutare un premio, nonostante motivazioni più che ragionevoli, non è comunque educato. Sempre ammesso che a questi quattro scalmanati pensionati resti il tempo per soffermarsi a commentare le ultime notizie, impegnati come sono a indagare su nuovi casi.  

Di certo c’è che il “club dei delitti del giovedì” a cui Richard Osman ha dato vita sembra essere nato apposta per ricordarci che l’età è solo un numero. E per smentire il tacito assunto per cui “anzianità” è per forza sinonimo di fragilità o di resa.  

Emerge ancor più nettamente in questo secondo capitolo, L’uomo che morì due volte. In particolare a quanto accade a Ibrahim: spintonato a terra per strada e rapinato da un giovane teppistello, finisce in ospedale. Ibrahim. Una delle tante persone prese di mira perché “anziane”. Persone fragili. Indifese. Scippi, raggiri: le vittime più appetibili anche per malintenzionati improvvisati.  

Il giovane teppistello però questa volta non ha fatto i conti con “il club dei delitti del giovedì”. La scaltrezza di Elizabeth che, pur di stanarlo, non esita a escogitare un piano articolato arrivando a ordinare un quantitativo non indifferente di cocaina. La sete di giustizia (e di vendetta) di Ron che cresce esponenzialmente quando qualcuno osa toccare le persone a lui più care. L’ostinazione di Joyce, disposta a tutto pur di aiutare Ibrahim ad uscire di casa e a vincere la paura che lo attanaglia dopo l’aggressione.  

La storyline di Ibrahim, per quanto nell’insieme non di certo centrale, esprime però più delle altre la profondità del lavoro di Osman. La forza del messaggio che si propone di lanciare dando voce al “club dei delitti del giovedì”: la vita, se presa con leggerezza e curiosità, può stupirci anche a 70-80-90-100 anni sempre che noi siamo ancora pronti ad accoglierla e a lasciarci sorprendere. Perché se forse è vero, come sostiene Ibrahim, che la nostra esistenza ha senso solo per via della morte, lo è altrettanto che alla fine “in fondo non tutto riguarda la morte”, Joyce dixit. 

Riflessioni semiserie sulla vita e sugli infiniti sensi che le attribuiamo attraversano pagine dense di poeticità in cui risaltano dialoghi intrisi di humour tipicamente british. Lato detection, Osman rispetto al precedente capitolo alza notevolmente l’asticella. L’indagine su due omicidi e un furto di diamanti arriva a coinvolgere addirittura i servizi segreti britannici e la mafia americana: una ricostruzione di sicuro poderosa quanto ardita, a tratti anche eccessivamente, quasi ai limiti del verosimile. Ma d’altronde ciò che sembra più interessare all’autore è indagare da prospettive diverse le pulsioni e i sentimenti umani, l’amore, l’amicizia, le inquietudini dell’animo. È esplorare l’abisso tra il “vivere” e il “lasciarsi vivere” in cui si rischia di sprofondare quasi senza accorgersene. E la ricerca del (o dei) killer è, quasi dichiaratamente, un mero espediente. 

Restituire profondità con leggerezza. È in questo che Osman riesce al meglio, anche in “L’uomo che morì due volte”. E il finale, sorprendente quanto toccante, è lì a confermarlo. Per il resto vale quello che dice Queen Elizabeth: “Vecchio è chi si sente tale”. E c’è da scommettere che, se potesse, tra un impegno di corte e l’altro, il tempo per recarsi a Cooper Chase e trascorrere qualche minuto in compagnia di Elizabeth, Joyce, Ron e Ibrahim se lo prenderebbe davvero.  

Giulio Oliani

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