Non conosco il tuo nome



joshua ferris
Non conosco il tuo nome
neri pozza
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Dopo E poi siamo arrivati alla fine – best seller che ha inaugurato la collana Bloom della Neri Pozza nel 2006 – a marzo è uscito Non conosco il tuo nome: un libro carico di aspettative, anche per le parole che molti referenti autorevoli hanno speso in favore dell’autore.
Tra questi Elizabeth Strout (vincitrice del premio Pulitzer per la narrativa nel 2009) che, in un’intervista per Repubblica, ha indicato il giovane Ferris – americano, classe 1974 – come uno tra gli scrittori più interessanti d’America, sullo sfondo di un paese dove “troppi libri sono sopravvalutati”.

E Non conosco il tuo nome, infatti, non delude: fin dall’inizio rivela una prosa ruvida e suadente, piegata ai bisogni di una riflessione dai toni spietati sulla condizione umana, che indaga il tormento delle scelte e il dolore dell’impossibilità, il drammatico scontro tra la volontà della mente e le schiavitù del corpo, utilizzando la malattia come chiave metaforica di lettura della realtà.

Ecco a voi Tim Farnsworth: uomo affascinante, avvocato di successo, marito appassionato e padre amorevole costretto a fuggire dalla felicità a causa di una patologia senza nome. Incurabile, sconosciuta, terrificante, questa sua bizzarra malattia se ne va e poi ritorna, implacabile e imprevedibile, condannando il protagonista del libro a camminare senza meta e senza sosta per fermarsi solo quando, stremato dalla stanchezza, egli cade addormentato in luoghi sconosciuti, dove le sue stesse gambe l’hanno condotto. È così che Ferris sceglie di scrivere della devastazione improvvisa che può colpire un’esistenza qualsiasi, analizzando la tragicità di un evento di questo tipo dal punto di vista del malato e dei suoi familiari, descrivendo con minuzia e lucida freddezza tutte le complesse dinamiche psicologiche che si costruiscono intorno al problema, gettando una luce nuova e inquietante sulle idee condivise di felicità e di stabilità degli affetti, sulla natura del senso di colpa.

Il libro è diviso in due parti, nella prima la narrazione è concentrata sui tentativi di gestire questa malattia che condanna al moto perpetuo, nella seconda si definisce un lento e affatto scontato epilogo. Ma è proprio in questa seconda parte che avviene un piccolo miracolo e ciò che era semplicemente un bel libro diventa un grande capolavoro: in queste pagine Joshua Ferris è capace di sferrare al cuore colpi di maggiore intensità, ed è tra questi paragrafi, fatti brevi e affannati, che la finzione letteraria cede il passo alla poesia e al ragionamento filosofico.
Ferris ragiona, in sostanza, d’amore e morte – tema tanto caro alla letteratura di tutti i tempi – decretandone il disperato trionfo così come già fece Giacomo Leopardi: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ingenerò la sorte./Cose quaggiù sì belle/altre il mondo non ha, non han le stelle./Nasce dall’uno il bene,/nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell’essere si trova;/l’altra ogni gran dolore,/ogni gran male annulla”.

stefania perosin

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