Il simbolo perduto



dan brown
Il simbolo perduto
mondadori
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Ebbene sì. Mi sono macchiata dell’ennesima onta scivolando nelle sabbie mobili di una palude editoriale.
Ipnotizzata dal canto di una sirena di fogli. Non poteva essere altrimenti. Le vetrine zeppe di pile, il cartonato in scala 1:1 con il sorriso maliardo dello scrittore più catodico al mondo per non parlare della bellezza di quattro edizioni.
L’originale britannica, la versione americana e due italiane. Un euro a differenziare le due nostrane: quella classica da una seconda, pensata per un pubblico più vintage, in carattere 14.

Quando un potenziale acquirente viene travolto da una combinazione di metamessaggi di questo tipo non serve il professor Langdon per decifrarli. Il successo è garantito a prescindere.

Il simbolo perduto, ultimo ciclope letterario di Dan Brown, nasce come il sequel del suo precedente bestseller: Il Codice Da Vinci, primatista di vendite con i suoi 81 milioni di copie dal 2003 ad oggi.
530 le pagine per una vicenda che si snoda in dodici ore scandite da un topolino al polso, in cui il professore di simbologia si troverà protagonista suo malgrado sventando un complotto massonico.
Messi i sigilli al Vaticano e sotto vetro la piramide del Louvre, la saga approda oltreoceano.

A Washington, nel cuore pulsante del potere americano. Langdon si presenta in Campidoglio dietro invito del suo amico Peter Solomon, ma una volta giunto a destinazione del maestro trova solo la mano amputata con tatuati una stringa di simboli massonici.
Una sottointesa storia d’amore con la sorella di Salomon, Katherine esperta di noetica, sfuma di rosa il tutto. Menzione speciale al cattivo, massone deviato, capace di conferire un minimo di slancio con i suoi monologhi spesso in prima persona, ad un testo diversamente monocorde ponendoci inoltre davanti al memento di saggezza popolare: dai nemici mi salvi Dio, che dai parenti ci penso io.

Il teorema fondante del libro poggerebbe le basi sul presunto fondo gnostico-massonico dell’ethos americano ma il testo è farraginoso con uno stile involuto e riferimenti non specifici agli sviluppi contingenti della storia. Sbarramenti che confondono il lettore, distraendolo e facendo calare inevitabilmente la tensione all’interno del ritmo narrativo.
Non solo: l’impressione è che questo sfoggio di erudizione fine a se stesso e senza verificare l’attendibilità delle fonti trasformi Dan Brown in un epistemologo di Wikipedia dell’ultimo minuto.

La corsa lungo le 530 pagine si chiude on una parola: “Speranza” che, come si sa, è l’ultima a morire. Non quella, morta a prescindere, che vorrebbe Il simbolo perduto come l’ultimo episodio della saga da supermercato di Robert Langdon. Purtroppo per la legge del mercato sappiamo già che altri misteri travolgeranno il professore gadget che parla per luoghi comuni. Come il marketing da libreria conferma.

bea buozzi

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