Intervista a Pupi Avati

“Sono un narratore, ogni giorno devo scrivere e raccontare, mi sento come una donna che avverte dentro di sé una nuova vita, sente battere due cuori e lo sta per comunicare al padre. Provo una specie di commozione romantica quando sento nascere dentro di me una storia, anch’io avverto due cuori, il mio e quello della storia”.

Confida Pupi Avati, a Bellinzona dove aveva ricevuto il Pardo d’Onore al Festival Castellinaria e presentato “Una sconfinata giovinezza” sullo schermo e in libreria per Garzanti. “E’ la prima volta che scrivo una storia d’amore – continua Avati – guardando le donne non per l’aspetto fisico ma attraverso l’ottica del sentimento. Tratto un tema sociale, quello dell’Alzheimer, che in Italia interessa settecentomila famiglie. E un film in controtendenza rispetto alle mode, in tutte le terapie l’amore è fondamentale, i medici dovrebbero prescriverlo nelle ricette”.

Da alcuni anni ci propone le sue storie sia in libro che in film; quale viene prima?

“Scrivo libri, quindi ne traggo dei film. Il libro ha un’ambizione diversa, con la parola si riesce a dire molto di più. Il cinema non è esaustivo, un libro contiene più informazioni, riesce a raccontare i pensieri e aprire delle parentesi nella narrazione. Il cinema scorre implacabile 24 fotogrammi al secondo, il racconto cinematografico incalza. Chi vuole saperne di più legga il libro. Sono un bibliofilo, posseggo moltissimi libri, a volte ne acquisto molti tutti insieme, anche usati. Alcuni anni fa Lino Capolicchio cercava disperatamente “Demoni e visioni notturne” di Alfred Kubin, un’edizione rara del Saggiatore. Me ne parlò per caso. L’avevo tra i miei libri ancora sigillato. Glielo regalai e da allora nacque una sua misteriosa soggezione nei miei confronti.”

Da molti anni non lavorava più con Lino Capolicchio che è tornato sul set per lei proprio in Una sconfinata giovinezza, c’era qualche ragione?

Nessuna, come con Carlo Delle Piane e Diego Abatantuono la curiosità reciproca era venuta a scemare, come in amore ci eravamo già svelati completamente, sapevo già quale sarebbe stata la loro risposta a ciò che chiedevo. Tornare a lavorare insieme a Capolicchio dopo parecchi anni è stato emozionante.

Il suo protagonista si chiama Lino, è un caso?

E’mio papà, si chiamava Angelo detto Lino, anche lui era scomparso in un incidente d’auto come il padre del protagonista.

Lei narra la provincia e i suoi caratteri; è stato paragonato a Piero Chiara, lo conosceva?

Non personalmente, ma conosco la sua opera; Chiara ha un modo simile per raccontare l’esistenza, la maggior parte dei suoi racconti sono incentrati sui suoi luoghi, la sua terra e la gente che la abita. Anche se lui era più grande di me racconta un’ Italia simile a quella da cui provengo, con i bar e il gioco delle carte che ho messo anch’ io nei miei film. In comune abbiamo anche la prolificità.

Da Luino, la terra di Piero Chiara viene Massimo Boldi, protagonista del suo “Festival”; cosa ricorda di lui?

Quando abbiamo girato Festival Massimo Boldi era in un momento in cui stava ancora pensando al tipo di cinema che lo ha portato al successo, mentre io chiedevo cose diverse. Probabilmente adesso sarebbe nella condizione di tentare di azzardare un passaggio a un cinema più consapevole, più misurato del quale allora non era ancora totalmente convinto. Aveva la stessa ambiguità di Christian De Sica mentre giravamo Il figlio più piccolo e smentivamo i cinepanettoni, e un attimo dopo è tornato a quel tipo di cinema. Tenere insieme queste due anime è molto difficile per un attore, il pubblico lo percepisce. Non accadde con Abatantuono, che si buttò totalmente nel mio cinema e dette una svolta alla sua carriera.”

Perché fa cinema?

Fui folgorato dal cinema quando vidi Otto e mezzo di Fellini. All’epoca vivevo la frustrazione di aspirazioni musicali fallite e ero impiegato in una ditta di surgelati. Capii cos’era il cinema e cosa fossero le potenzialità di un regista e decisi di fare cinema. Iniziai un percorso di grandi momenti di esaltazione e grandi cadute. Sono contento e riconoscente al cinema perché mi ha permesso di dire chi sono. I miei film suscitano ancora oggi nei giovani opportunità di dibattito, l’uomo muta pochissimo, le ragioni di gioia e sofferenza sono universali. Mio fratello e io abbiamo sempre seguito una sorta di urgenza che derivava dal lusso di essere disinformati, prescindendo dalle mode. Racconto fasi della mia vita con cui non ho chiuso i conti, quali l’adolescenza che ho vissuto con precipitazione; sfrutto questo strumento fantastico che permette di rivivere emozioni vissute troppo in fretta delegando ad altri e tenendo viva la memoria.

Cosa chiede a un attore?

Per avere il massimo chiedo cose che non si aspetta, di diventare diverso da come è e gli attori sono molto contenti; Albanese, quando gli proposi di ingrassare di dieci chili, in due mesi ingrassò addirittura di dodici.. Sono come un giocatore d’azzardo, mi diverto quando ho l’adrenalina a mille e corro dei rischi. Trasformarsi viene avvertito dagli attori come una grande opportunità.

ambretta sampietro

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