Un covo di vipere



Andrea Camilleri
Un covo di vipere
Sellerio
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Il ragioniere Cosimo Barletta è stato ucciso. Lo ha ritrovato il figlio seduto nella cucina del suo villino ancora intento a bere la sua tazza di caffè, ma con un buco in testa. Lascia due figli, Arturo e Giovanna. E qualcos’altro. Perché il ragioniere Barletta era tutto eccetto che una brava persona. Strozzino e compulsivo collezionista di femmine, ricattatore, violentatore se del caso, feticista. E pieno di soldi. Sempre in posizione di potere. O quasi sempre. Rare volte in posizione difensiva o addirittura di supplica. Rare, ma pur sempre di questo mondo. Perché l’universo che usa come oggetto e che obbliga, volente o nolente, a chinarsi di schiena con lui dietro in pieno tiramento ha tra le sue rappresentanti chi è in grado di fare chinare lui.

Sta di fatto che il ragioniere Barletta non c’è più, e ora per lui possono parlare solo i due figli. Insieme a una serie di lettere e fotografie che all’immaginazione non lasciano nulla che il commissario Montalbano e i suoi fidi Augello e Fazio riescono via via a ritrovare.

A rendere più lisergici i giorni del commissario di Vigata, ecco l’arrivo della fidanzata Livia. Lei e il suo carico di screzi inespressi che il tempo ha man mano ingrassato. Ci si mette pure uno strano personaggio che vive da qualche tempo dentro una grotta a poca distanza dalla casa di Montalbano. Un barbone, in quanto dotato di una barba corposa, ma nient’affatto un derelitto umano. E lo sappiamo, nei romanzi di Andrea Camilleri non una presenza umana ha fatto mai da semplice contorno inodore e insapore.

Scritto nel 2008 (ma decisamente rivisto nei giorni nostri poco prima della pubblicazione), Un Covo di Vipere torna in un “luogo” del noir che l’autore siciliano affrontò in un romanzo una decina di anni fa. Restiamo volutamente nel vago per non rovinare la lettura di chi, come chi scrive queste righe, ama ed è sedotto dalla letteratura di Camilleri. L’indicazione del titolo di riferimento sarebbe uno sfregio per chi intende arrivare da riva a riva, immerso anima e occhi senza disturbi esterni, in compagnia solo dell’autentica narrativa.

Montalbano questa volta non deve chiamare a raccolta le stanze più intime della sua memoria solo per dare un volto, un’azione e un movente al delitto. Davanti a lui si apre l’abisso dell’abiezione umana. Quella che non si limita a compiere atti e omissioni che producono ribrezzo, ma che al proprio agire risponde con la gelida indifferenza che caratterizza chi dell’esperienza umana è capace di lasciare per la strada unicamente brandelli altrui, incurante se in grado o meno di ricostituirsi in vite intere. Lui, Montalbano, è però poliziotto, non censore o giudice di valori e abitudini. Ha scelto di vivere dentro una logica che gli permetterebbe di indossare le maschere più gelide e di procedere come un caterpillar. Ma non ce la fa. Il suo sguardo è perennemente compassionevole, anche se l’umanità-vittima che raccoglie risulta di ben poca tenerezza, né priva di responsabilità morali verso gli abusi e le crudeltà ricevute. Per dare forma a questa epica, il maestro di Porto Empedocle ci regala uno dei suoi più cinematografici/teatrali romanzi. Ritorno ad antico amore che sa di cose buone, aria fresca, tempo sconosciuto e sguardo infinito.

Corrado Ori Tanzi

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