Nella pietra e nel sangue – Gabriele Dadati



Gabriele Dadati
Nella pietra e nel sangue
Baldini + Castoldi
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Com’è morto realmente Pietro della Vigna (più conosciuto come Pier delle Vigne)? Perché fu condannato da Federico II, dopo oltre vent’anni di onorato servizio al fianco dell’imperatore? Quale fu la sua colpa? “Nella pietra e nel sangue” di Gabriele Dadati (editore Baldini+Castoldi) risponde a questi quesiti che hanno arrovellato nei secoli gli studiosi di storia e di letteratura. Una ricostruzione accurata, scientifica, ricca di fonti regolarmente citate, ma anche di deduzioni, di tranelli interpretativi, di immersione negli usi e nei costumi della corte federiciana, nelle abitudini sociali consolidate nella prima metà del Duecento. Un lavoro minuzioso, ma mai noioso, anzi.
Una scrittura che alterna la full immersion nel Medioevo, nella sua quotidianità, con la vita di due giovani fidanzati, laureati, alla ricerca del loro posto nel mondo. Dario, il protagonista insieme con Pietro della Vigna e Federico II, è un ricercatore universitario, all’ultimo anno del dottorato di ricerca dedicato a Giovanni Boccaccio come commentatore di Dante. Nel suo percorso di ricercatore, Dario deve tenere una relazione ad un convegno internazionale alla Normale di Pisa, incentrata sul commento alla vicenda di Pietro della Vigna, il logoteta di Federico II che il poeta fiorentino collocava nel tredicesimo canto dell’Inferno.
“Lì, in un tetro bosco abitato dalle Arpie e dalle cagne infernali, veniva punito chi era stato violento contro di sé suicidandosi o sperperando i propri beni. Della prima schiera faceva parte Pietro, tra i maggiori prosatori in latino di tutto il Medioevo, il dignitario più amato dall’ultimo grande imperatore d’Occidente, che aveva concluso la propria esistenza terrena ammazzandosi – scrive Dadati -. Aveva tradito il proprio signore, era stato accecato e con buona probabilità sarebbe stato condotto per le città d’Italia come ammonimento vivente alle genti. Questo però non aveva fatto in tempo ad avvenire. Pietro si era ucciso prima. Perché e come avesse tradito, perché e come si fosse ammazzato erano domande le cui risposte subivano, nel sovrapporsi e nel differire degli antichi commenti, una diffrazione insormontabile”.
Insomma, un vero e proprio giallo, o se preferite un cold case, affidato a un giovane studioso, che entra talmente tanto nella vicenda da lasciarsene suggestionare, coinvolgere e, in qualche caso, travolgere. L’abilità di Dadati nel tenere sempre desta l’attenzione del lettore si estrinseca nell’alternanza dei capitoli: uno che racconta le vicende e le avventure condivise da Federico II e Pietro della Vigna, uno che ci riporta ai giorni nostri con Dario e la sua fidanzata impegnati tra ordinaria quotidianità e ipotesi, scoperte, suggestioni. Non soltanto un’alternanza temporale, ma anche linguistica: quando il capitolo è collocato nel Duecento la scrittura si fa più ricca, arrotondata, lirica, con richiami alla lingua usata dai protagonisti, quando si fa riferimento all’attualità scorre fluida e moderna con ritmo incalzante.
Il susseguirsi delle ipotesi e degli episodi fluisce naturalmente verso la conclusione già nota, con una apparente conferma di una delle verità proposte dagli storici, ma con una sorprendente novità: gli atroci supplizi inflitti ai condannati da carnefici inimmaginabili, sconosciuti al gran parte di noi, un’ignoranza dettata da “un incredibile rimosso della coscienza occidentale”, come scrive nella nota finale Dadati. Il romanzo si avvale di un’evidente e approfondita conoscenza della materia e prende spunto da studi di ricerca realmente effettuati, riuscendo a combinarli in una storia molto piacevole e stimolante, nonostante episodi di enorme violenza, che hanno però il merito di risvegliare curiosità sopite nei confronti della storia, quella vera, documentata, e non quella che ci hanno raccontato a scuola.

Michele Marolla

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