Doppio silenzio – Gianni Farinetti



Gianni Farinetti
Doppio silenzio
Marsilio
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Questa volta Gianni Farinetti lascia le amate Alte Langhe e ambienta il suo ultimo romanzo (Doppio silenzio, Marsilio, luglio 2020, 176 pagine) a Palermo, tra nobili più o meno decaduti, antichi palazzi in rovina e ricche famiglie alto-borghesi.
Da sempre molto affascinato dalla città – con le sue violente contraddizioni e i suoi paradossi, la bellezza e, al contempo, la devastazione del suo patrimonio storico, festosità mescolata a cupezza – il protagonista del romanzo, l’immancabile sceneggiatore Sebastiano Guarienti, vola a Palermo perché invitato da una vecchia cara amica, Consuelo Blasco Fuentes, principessa e discendente di nobile lignaggio che ha, da lungo tempo, lasciato la città, per il (secondo) matrimonio del figlio Ascanio con Elisabetta, appartenente ad una famiglia, i Galvano, molto facoltosa e frutto di un mix tra nobiltà e denaro.
In aereo, su un quotidiano, legge distrattamente la notizia del rinvenimento proprio nelle rovine di un’antica villa nel capoluogo siciliano del cadavere di Paolo Currau, nipote ed erede di un noto e chiacchierato impresario edile, molto in auge e negli anni ‘60.
Durante il brevissimo soggiorno, Guarienti ha modo di conoscere i membri della famiglia della sposa tra i quali spiccano i fratelli, Diego e la sua gemella Giulia, entrambi fascinosi, eccentrici, sfuggenti; l’uno leccato e marpionesco, tutto una posa di sorniona eleganza, l’altra sfrontata e provocatoria ma con un rancore trattenuto sottopelle.
Lasciato il ricevimento, mentre si dirige verso l’aeroporto, Guarienti vede dal finestrino del taxi un uomo che assomiglia sorprendentemente a Nicola, un suo antico amante, un ragazzo che non vede da oltre vent’anni. Turbato, decide di capire chi sia quella figura, così scende al volo dal taxi perdendo il volo per Torino.
Ha così inizio uno strano e misterioso inseguimento che porterà Guarienti, lungo il suo percorso, a fare scoperte imprevedibili e sconcertanti.
Non raccontiamo altro della trama per non rovinare la sorpresa anche se, a voler essere sinceri, la vicenda strettamente giallistica è decisamente leggerina e incongrua.
Più che altro il racconto è una rivisitazione di Guarienti nel suo passato e, in particolare, della appassionata ma breve storia d’amore con Nicola; l’autore ne ripercorre i passaggi, le emozioni e i luoghi con uno sguardo pieno di nostalgia e, forse, di rammarico.
Da bravo conoscitore e raccontatore di saghe familiari, Farinetti ci descrive anche, nei momenti salienti del matrimonio, le figure e le dinamiche delle famiglie degli sposi e i tanti personaggi di una nobiltà decaduta e di una borghesia rampante; sorrisi, moine, piccole manie, visi incipriati, invidie sotterranee, rancori e gelosie mai sopiti e insopportabili e snob “palermitanini” (come li definiamo) di cui pure Guarienti, ad un certo punto, si stufa abbandonando il ricevimento.
Ma il libro, con un ritmo veloce e incalzante, si concentra soprattutto su una sorta di Palermo shooting delle antiche ville nobiliari che circondano Palermo e che, in gran parte, versano in un pietoso stato di abbandono; colta e ricercata (anche se leggermente didascalica e con qualche errore) la descrizione delle ville della Piana dei Colli e della Conca d’Oro.
Farinetti vuole soprattutto raccontare di una “Sicilia, che è troppa, troppo stupore, contraddizioni, l’arcadia a braccetto con il desiderio di morte, di oblio perenne” e di siciliani che “…sì, siamo matti, strani, incoerenti e ci meritiamo il disastro che abbiamo combinato. Ma continuiamo a vivere nel più bello dei luoghi, o almeno lo è stato…” .
L’autore tuttavia si ferma al momento contemplativo del bello dei palazzi e del dramma della loro rovina senza indagare sulle cause e sulle responsabilità dell’aristocrazia e della borghesia siciliane (pur descritte nel romanzo) che, rispettivamente nel XIX e nel XX secolo, hanno rinunciato a volgere un ruolo di egemonia politica e culturale nella regione. Ma qui il discorso si fa complesso e va oltre il romanzo e le intenzioni dell’Autore.
Una sola notazione finale va però fatta. In queste “incursioni” letterarie fuori dal territorio di “appartenenza”, l’uso (pur curato e appropriato) di un dialetto che non è il proprio sa di stonato e appiccicaticcio, soprattutto se ad adoperare espressioni e frasi palermitane è uno sceneggiatore piemontese o una principessa che vive da sessant’anni fuori dalla Sicilia.
E allora, come suggerisce invero lo stesso protagonista, i palermitani mangino la granita câ brioscia e i piemontesi la bagna cauda.

Giovanni Marcì

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