Grazia Verasani

l libro (di un altro) che avresti voluto scrivere e il libro (tuo) che NON avresti voluto scrivere
I libri di altri che avrei voluto scrivere sono tantissimi. Ogni libro che mi entusiasma mi lega al suo autore e, a volte, mi spinge a scrivere a mia volta qualcosa, o a sottolineare le frasi che memorizzo, che metabolizzo, rielaboro, in una sorta di “digestione” continua. Il primo titolo che mi viene in mente è “Jakob von Gunten” di Robert Walser, un autore di cui amo tutti i lavori, lo stile asciutto, il linguaggio modernissimo, l’approdo a una semplicità che, a mio parere, dovrebbe essere il traguardo principe di ogni scrittore. E poi, a costo di essere banale, dico “Viaggio al termine della notte” di Celine: un testo che ho riletto spesso, studiandolo come un vero e proprio spartito musicale, con ammirazione profonda, e con quella tristezza che diventa via via liberatoria, quasi galvanizzante… Rispetto ai miei libri, tendo a essere autoindulgente. Ci sono alune parti che riscriverei da capo o che, oggi, forse taglierei. Ma tutti hanno avuto un senso in un momento preciso, hanno determinato (spero) una crescita, un miglioramento. Li ho cari così come sono, con le loro imperfezioni, con quella scrittura di getto tipica degli esordi.

Ti ritieni una scrittrice di genere o scrittore toutcourt, perché?
Ho pubblicato quattro libri “bianchi” prima di approcciarmi col genere noir. Quindi credo di essere una noirista atipica, nel senso che il genere mi piace molto, mi affascina, mi permette di tradurre un sentimento della realtà che il romanzo borghese tiranneggia. Il noir è anche, a mio parere, un autore dentro il mondo e non un autore che gira solo su stesso. Nei miei due ultimi romanzi noir c’è anche la volontà di descrivere una città (Bologna) nelle sue trasformazioni e di toccare tematiche sociali.

Un sempreverde da tenere sul comodino, una canzone da ascoltare sempre, un film da riguardare.
Oddio, un sempreverde non saprei, non ho un gran pollice verde. Una canzone che non mi stanco mai di ascoltare è “Home” dei Depeche Mode (la prima che mi viene in mente, ma ovviamente ce ne sono molte altre). E a istinto, anche per il film, dico “Jules e Jim” di Truffaut.

Si può vivere di sola scrittura oggi?
Direi di no. A parte i soliti nomi, e gli scrittori “televisivi”, credo che per tutti gli altri sia impossibile mantenersi solo con la scrittura. Ma credo anche che avere un’altra attività sia una garanzia per mantenere una certa autonomia e libertà rispetto a ciò che si scrive. Se un autore non ha la frenesia di arrivare a tanti, se non è schiacciato da compromessi “commerciali”, di sicuro non venderà milioni di copie ma avrà pur sempre la consolazione di una dignità di pagine che avrebbe comunque scritto per se stesso, senza ammiccamenti e insincerità.

Favorevole o contrario alle scuole di scrittura creativa? Perchè?
Sono diffidente rispetto alle scuole di scrittura creativa, soprattutto verso quelle che richiedono agli iscritti quote d’iscrizione eccessive o che hanno una sorta di marchio elitario. Credo che dipenda dai casi. Che ci siano intellettuali onesti in grado di sollecitare stimoli in aspiranti scrittori o anche solo in persone che cercano scambi e evasioni sociali e culturali. Ma resto dell’idea che l’unica scuola sia leggere molto. In genere, uno scrittore è uno che legge più di quanto scrive. Poi, se c’è una vocazione disciplinata, in grado di trasformarsi in “sacerdozio”… be’, lì non puoi farci niente, sei irrimediabilmente un individuo che ha trovato un senso della vita nelle parole, con le gioie e i dolori che ne conseguono.
(paolo roversi)

Potrebbero interessarti anche...