Il museo dell’innocenza



orhan pamuk
Il museo dell’innocenza
einaudi
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L’irruenza di una relazione non concessa nella Istanbul degli anni Settanta, i volti riflessi nel doppio di oggetti che raccordano il tempo.
Tra queste tracce, Pamuk insegue sempre più magistralmente e con insistenza dovuta un’eredità di distacchi: l’amore proibito di Kemal, trentenne borghese, e Füsun, sua giovane cugina pescata dal caso di una borsa riconsegnata al negozio in cui lavora come commessa. Il loro quadro di amanti ostacolati dalle convenzioni è una passione che si costruisce lenta oltre fidanzamenti ufficiali e amicizie riconosciute. Oltre i gradi di separazione da regole castigate e già infrante ai tempi del diktat della verginità prematrimoniale.

Istanbul non arranca alle spalle dello struggimento, ma piuttosto incide la ricerca della felicità nei luoghi resi opachi soltanto dalle apparenze.
Le strade tortuose, le torri e i quartieri poveri danno sostanza alle riflessioni e coscienze di Kemal fino a fargli rinunciare a Sibel, la compagna di sempre, per scegliere memorie ininterrotte e dettagli alla volta della nuova vita di Füsun. La scopre quindi sposata a un regista e decisa a coltivare il sogno di diventare attrice; si fa loro amico, finanziatore di film fallimentari e frequentatore assiduo della casa da cui prende a rubare oggetti.
Quel primo istinto si trasforma nella terapia contro il dolore di una distanza che non prevede più fughe agli yali – le ville in legno affacciate sullo Stretto – ma collezioni dove conforto e ossessione si miscelano irreparabilmente.

Per nove anni, la dedizione di Kemal si compone di attese e furti di pettini, mozziconi di sigaretta e orecchini come premessa della rottura inevitabile del matrimonio di Füsun. La relazione con il cugino, che quest’ultima più tardi accetta di sposare pur nel conflitto delle età e aspirazioni differenti, è dunque finalmente possibile. Ma non c’è seguito reale a un quadro osservato nella reviviscenza di Istanbul e delle sue case tormentate dalla storia, non bastano la bellezza e gli umori d’ombra di Viale Istiklal a oscurare il Bosforo nero negli occhi. Dopo una lunga e mai tanto ricercata notte d’amore, Kemal sopravvive alle conseguenze di un incidente che lo salva senza pietà. La perdita temporanea dell’uso della parola è prova della sua incapacità d’amare in assenza definitiva dell’unico volto.

Ed ecco l’idea di un museo nei vent’anni successivi in cui è disposto ad affidare allo stesso Pamuk – chiamato a narrare tutto in prima persona – quella rivoluzione delle cose che incarnano un sentimento. Quella versione così alta di innocenza invocata anche per il popolo turco, che si auspica orgoglioso della propria vita di cui solo “la poesia degli oggetti collezionati è l’autentica dimora”.

giulia valsecchi

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