In Bruges

Due killer vengono mandati in “esilio” da Londra a Bruges, in Belgio, in attesa che si calmino le acque (molto agitate) di un brutto caso: la pallottola che ha trapassato il corpo di un parroco, vittima di turno di uno dei due professionisti, ha infatti ucciso per errore anche un bambino. Il boss spedisce così Ray e Ken (interpretati dagli ottimi Colin Farrell e Brendan Gleeson) fuori dall’Inghilterra, in una città che diventerà non soltanto luogo di attesa, dove il tempo scorre piano, accompagnato da riflessioni e rimorsi, ma anche vero e proprio purgatorio in terra.

I due killer sono molto diversi: uno è giovane, l’altro più anziano, uno è pacato e riflessivo, l’altro inquieto. Uno riesce ad amare Bruges, a apprezzarne la struttura medievale, l’altro la odia profondamente, si annoia, brucia nell’ansia dell’attesa forzata. Ray e Ken aspettano la telefonata di Harry (il boss londinese, impersonato da Ralph Fiennes) per sapere cosa fare: la chiamata arriva, ma a solo uno dei due, e anziché portare la notizia desiderata è condita da un ordine sconvolgente. In Bruges è un film intelligente, un noir inconsueto e maturo. Il ritmo è lento, la sceneggiatura perfettamente costruita e ambientata in una Bruges sospesa nel tempo, popolata da personaggi equivoci (un nano protagonista di un film, una ragazza – di cui Ray si innamora – intrigante e piena di angoli oscuri).

Il regista, l’inglese di origini irlandesi Martin McDonagh, viene dal teatro: In Bruges è il suo primo lungometraggio, dopo avere vinto nel 2005 il premio Oscar con il corto Six shooter. La formazione teatrale (a soli 30 anni McDonagh era già un autore rispettatissimo) si rispecchia anche nel film, nella qualità dei dialoghi, divisi tra l’umorismo e la filosofia, e nella costruzione dei personaggi. In Bruges sa essere teso e violento, ma anche ironico, divertente e surreale. La storia è originale e i suoi sviluppi inattesi: la città è metafora del destino, del senso di colpa che macera in un tempo immobile, dando (forse?) una seconda possibilità di rinascita nel finale aperto.
Davvero un bel film, sorprendente e alternativo al circuito di massa.

michele ungari

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