Artusi, la chimica , la cucina e il calcio. Intervista a Marco Malvaldi

Da poco in libreria e già ai primi posti delle classifiche di vendita:  Il borghese Pellegrino di Marco Malvaldi, Sellerio, segna il ritorno dell’amato Artusi . Abbiamo chiesto a Marco Malvaldi qualche curiosità sul libro.

Una delle caratteristiche del cosiddetto “giallo mediterraneo” è la presenza fissa di abbondanti mangiate. Tu hai fregato tutti e sei preso il primo esperto in assoluto, colui che tu definisci anche il primo foodblogger della storia. Come è stato il tuo incontro con l’Artusi e la decisione di farne il personaggio di un giallo?
È partito tutto dieci anni fa, con Odore di Chiuso, che in realtà in origine si intitolava Tre uomini a caccia, e doveva essere un apocrifo di Jerome Klapka Jerome. Avevo voglia di scrivere un giallo ambientato nell’epoca d’oro della deduzione e del positivismo, senza impronte digitali o DNA; una cosa con il castello, la brughiera, nobili e servitù. Una roba molto inglese, insomma. Ma Antonio Sellerio fu tranchant: si scrive di quello che si conosce. Mi va bene l’ottocento, ma resta in Italia. Ma io volevo scrivere un apocrifo umoristico, rispondo. Va bene, mi dice lui, trova un grande autore italiano di fine ‘800 che avesse un grande sense of humour. Roba da dare la testa in un chiodo. Poi però mi è sovvenuto il libro dell’Artusi. E lì è nato tutto.

È molto divertente la scena in cui Pellegrino tenta di aprire la latta di carne in scatola. Si è pensato a metterla sottovuoto ma non a come aprirla. Sai forse dopo quanto è stato brevettato il primo apriscatole?
Credo a metà ‘800, ma non era per niente diffuso come oggetto, perché la carne in scatola era roba da esercito, non da salotto; e i soldati aprivano le scatole con quel che c’era, coltelli o spilloni in primis. Poi, con la diffusione del cibo confezionato, sono diventati di uso comune, ma credo non prima degli anni ’20. Del resto, anche oggi per stappare la birra si usano gli oggetti più improvvisati: chiavi, spigoli, accendini… un mio amico le apre coi denti.

Il castello che fa da ambientazione alla storia esiste o è tua invenzione? Quando inventi un luogo, che sia un castello, un bar o altro, disegni una pianta sulla quale fai muovere i personaggi?
Questo castello è una invenzione, ma è ispirato a un posto realmente esistente, non tanto toscano quanto emiliano; le aziende agricole con annessa enorme casa padronale di una volta, come quelle che si trovano descritte nei libri di Guareschi. O l’Antica Corte Pallavicina, un agriturismo stellato Michelin vicino a Parma, un posto meraviglioso che unisce una cucina e un servizio da urlo a una location parecchio rustica, almeno da fuori…
La pianta diciamo che ce l’ho in testa, rozza e approssimata, non precisa: deve essere elastica, devo poter costruire stanze nuove o aprire finestre senza chiedere la DIA in comune, sennò sarebbe un casino.

Fai dire a un personaggio “ in nessun posto come a tavola si avviano buoni rapporti tra i popoli”. In effetti il desco ha visto siglare molti patti, ma storicamente è stato anche luogo di molti omicidi. Oggi facciamo le “cene con delitto” per divertimento, ma in parecchie corti era la prassi e si divertivano molto poco…
L’uomo è uno dei tanti animali che mangia in compagnia, ma forse è l’unico disposto ad offrire cibo ad altri esemplari che conosce a malapena. Chiaro che dove c’è cibo c’è anche un possibile avvelenamento, i Borgia ne avevano fatto quasi un metodo politico… Il fatto è che a tavola ti rilassi, e quindi sei portato a fidarti. Si abbassa la guardia, il che significa che si è più vulnerabili.

Nel libro sono presenti parecchi paragoni calcistici, perché?
È una mia fissa, non saprei spiegarti il motivo. Io adoro il calcio, sono uno di quelli che rischia di rimanere ipnotizzato da una partita di serie B turca. Credo che il calcio sia un rituale che ha molte analogie con un libro giallo: dura un tempo limitato, alla fine sai come va a finire, e non pretende di insegnarti nulla, solo di farti divertire grazie a un sapiente mix di estro e violenza in parti uguali. Ma queste sono solo giustificazioni a posteriori. Amo il calcio, e mi viene naturale esprimermi in termini calcistici.

Il diario di Pellegrino è solo un espediente narrativo per dare esempio di scrittura dell’epoca e contemporaneamente portare avanti velocemente una parte della narrazione o esiste veramente un suo diario? Come ti sei preparato sul modo di scrivere e parlare di quel periodo?
Artusi ha scritto una autobiografia godibilissima, che è stata uno dei libri di testo fondamentali per scrivere di lui, e per scrivere facendo finta di essere lui. Il diario è nato come scusa per scrivere alla sua maniera, ampollosa eppure diretta, elegante anche quando parla di flatulenze, ma si è rivelato un ottimo escamotage per dare ritmo e scandire la narrazione. Mi è sempre piaciuto il modo di scrivere dell’800, e ho letti tantissimo di quel periodo: non solo romanzi ma anche saggi, e manuali tecnici, come il manuale di canto del Garcia, uno dei più grandi tenori dell’epoca.

Sbaglio se dico che in un periodo di ascesa borghese, di industria, finanza e commercio, di una presa di coscienza femminile, il personaggio più reazionario e nostalgico del libro è il maggiordomo?
Assolutamente, hai ragione. Bartolomeo è preso pari pari dai libri di Wodehouse, non tanto Jeeves quanto Beach, il domestico del castello di Blandings, molto più nobile e signorile del suo datore di lavoro, lord Emsworth, un vecchio rintronato che passa le giornate ad accudire la sua scrofa da competizione e a leggere un libro dal titolo Come devo allevare il mio maiale , che è la sua personalissima Bibbia. Uno che farebbe la rivoluzione pur di rimanere servo, direbbe Ennio Flaiano. Ma anche uno che è consapevole di essere un cardine del castello in cui vive. I ministri cambiano, ma gli uscieri restano.

In un punto l’Artusi riflette: l’importante è il cambiamento. I nostri sensi si abituano se vengono esposti sempre agli stessi stimoli. E allora delle due l’una: o se ne dà loro di più, o gli si deve dare qualcosa di diverso. Vale anche per la scrittura? Cosa ti dà stimoli per scrivere?
Interviste come questa. Intendo, la consapevolezza di avere persone che magari aspettano di leggere quello che scrivo, e che poi lo leggono con attenzione, con curiosità, magari anche facendomi il cesto quando non gli piace. Io scrivo per cercare di dimostrare a me stesso che ho capito come funziona una determinata cosa, e scrivendo mi diventa mano a mano più chiara; ma mi esalta, e al tempo stesso mi spaventa, sapere che ci sono persone che leggeranno quello che scrivo. È come ricominciare il campionato annata dopo annata… sì, lo so, scusa. È un vizio. Non lo faccio più, lo giuro su Gianni Brera.

Una curiosità: i vescovi di legno policromo della Val Gardena. Esistono? Sono il risultato di una Tombola dei troiai?
Esistono, esistono. Si trovavano in casa di un mio amico a Palaia, nella campagna toscana, dove andavamo a organizzare feste e ci facevamo scherzi memorabili, mettendoli nel letto delle ragazze che dormivano lì per la prima volta, con due candele accese ai lati… Partivano degli urli…

In uno dei tuoi interventi diretti nel libro, ti definisci “cronista”. Perché non autore? C’è una certa differenza…
In un libro storico devi far finta di essere un cronista, uno che riporta, non che racconta. E poi mi piace la parola cronista, sa di obiettivo, di distaccato; non lo sono assolutamente, eh, ma mi piacerebbe riuscirci. Intendo, credo che si veda chiaramente per quali personaggi parteggio nel libro e quali mi stanno sugli zebedei. Lo faccio in modo smaccato, perché credo sia il modo più onesto per farlo. Sono un cronista delle mie impressioni, non dei fatti: ma un cronista, sì.

Dici anche: la cucina è un linguaggio universale, al pari quasi della musica, eppure proprio di cibi si parla spesso sul giornale, di campagne contro il consumo di determinati cibi in altre parti del mondo ( cani, animali selvaggi, e mucche da noi). Che ne pensi?
Sul consumo di carne di animali selvatici credo di non dover dire nulla: siamo rimasti tappati in casa tre mesi perché in alcune parti del mondo si mangiano i pipistrelli. Il consumo di carne animale è un problema etico di non poco conto, con alcuni rovesci della medaglia: parliamo di vegetarianesimo, per esempio. I vegetariani consumano latticini, che vengono dal latte delle mucche. E quando nasce un vitellino maschio, che ne facciamo? Gli diamo la pensione? Se vogliamo il latte, dobbiamo accettare che una delle conseguenze è avere a disposizione carne di vitello.
L’etica si può estendere anche più in là. Un vegano, ipoteticamente, mi potrebbe dire: io mangio senza uccidere. Ne è sicuro? Ha mai visto coltivare un campo? Ha mai visto quanti topi, nutrie, uccelli stermina un contadino per arare e dissodare, e poi per proteggere il raccolto? E le coccinelle, quelle adorabili bestiole che vengono sterminate in massa? Dov’è il confine tra ‘forma di vita animale da proteggere’ e ‘parassita’? Non è un problema semplice.

Credi che dopo la pandemia qualcosa sia cambiato nella narrativa e nei lettori? Un periodo del genere potrebbe aver cambiato i gusti dei lettori, pardon, delle lettrici, come dici spesso nel libro?
Credo di sì. Credo che ci sia più voglia di leggere, e di leggere bei libri di ogni tipo, non narrativa di consumo o instant book del blogger di turno. Ho visto mia moglie, che di solito è una giallofila accanita, leggersi saggi di antropologia. Io mi sono letto Le persiane verdi, di Simenon, che era un libro che tenevo da parte nel caso mi fossi rotto una gamba o rimasto a letto per un mese. Uno di quei libri che uno scrittore non dovrebbe mai leggere: ti senti veramente una schiappa. Però ti inchini e ringrazi, romanzi così ne vengono fuori uno ogni dieci anni.

Ultima curiosità. Sai anche cucinare bene?
Non quanto vorrei. Ma mi piace. Tutti i chimici sanno cucinare, la chimica è cucina senza assaggi,in fondo. E mi piacciono le trasmissioni di cucina, i libri di cucina. Ultimamente mi sono fissato con Bressanini, i suoi testi di scienza della cucina sono un godimento autentico. Se volete che vi inviti a cena però non portate il vino, piuttosto aiutatemi a rigovernare dopo…

MilanoNera ringrazia Marco Malvaldi per la disponibilità.
Qui la nostra recensione a Il borghese Pellegrino

Cristina Aicardi

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