Milano, inverno 1964. Dopo una notte di nevischio, in una gelida alba di un giorno triste, cupo e freddo che pare voler nascondere nella nebbia cose e persone, la portinaia di uno palazzo di viale Montenero, mentre spazza il marciapiede, trova abbandonato sulla destra dell’edificio una specie il fagotto. Scoprirà inorridita che si tratta del cadavere di un giovane: poco più di un ragazzo, a occhio venti venticinque anni. La polizia, chiamata subito con una telefonata, scoprirà che la vittima, picchiata a morte e con la testa fracassata, è priva di documenti. L’indagine viene subito affidata al commissario Caronte, noto in questura per un carattere ruvido e uno stile di vita e personale abbastanza fuori dalle righe per un funzionario di polizia. Originario della Lomellina, a cui lo legano ormai solo i ricordi d’infanzia, probabilmente Caronte non è certo il tipico poliziotto di un’Italia dei primi anni Sessanta. Nel tempo libero, il commissario infatti, oltre alla affettuosa frequentazione con una bella donna, colta attraente e in grado di ammorbidire e convivere con le sue abitudini da orso, legge con piacere romanzi classici e di avventura (è un tifoso di Dumas) e libri di storia italiana, ama giocare a biliardo, va per cabaret e soprattutto frequenta celebri osterie sul Naviglio. Privilegia quella del Tenaglia, alla Ripa di Porta Ticinese dove si mangiano i piatti della più classica cucina milanese, si beve bene e si possono ascoltare le canzoni della Mala fino a notte fonda. Con lui a tavola, molto spesso, i suoi migliori amici: entrambi giornalisti: Beppe che lavora per “La Gazzetta dello Sport”, un gourmet, a cui piace far tardi, patito del Milan di Rocco e di Rivera, e Rommel, cronista di nera de “Il Corsera”, playboy, cultore di jazz, sempre elegante, ma senza un soldo. Con loro, Reali introduce un cameo o meglio una felice comparsata dei personaggi di quella Milano di allora, quali Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e i Gufi, in un mondo in rivoluzione avviato verso forti cambiamenti sociali e dure tensioni politiche. In perenne contrapposizione con le formali e retoriche consuetudini operazionali dell’epoca, in cui ancora domina il signorsì generalizzato, con il look che fa pensare alla grinta di Jean Gabin, Caronte segue le indagini alla sua maniera, da cane sciolto. È coriaceo e tenace, e affronta gli ostacoli sulla sua strada con testardaggine, spalleggiato per sua fortuna da fedeli aiutanti, vedi il bravo ispettore Perotti. Il Perotti con il suo bel carico di problemi famigliari (costretto ad arrabattarsi con quattro figli e un quinto in arrivo), perennemente raffreddato, con l’aspetto di una specie di Humphrey Bogart nel film Casablanca. L’indagine parrebbe ben avviata non appena si scopre l’identità della vittima tale Giuseppe Magnaghi, detto Pino, disoccupato e residente alla Bovisa. Figlio maggiore sbalestrato di una famiglia di bravi e onesti lavoratori, abitava ancora con il padre, la madre, il fratello piccolo – che sogna di diventare un corridore di bicicletta sulla orme di Fausto Coppi – e la sorella, Maristella, una splendida ragazza di vent’anni che lavora come commessa da un fioraio ma che, come il fratello ammazzato, sogna solo di avere denaro da spendere, cambiar vita, farsi mantenere e magari farsi sposare da un uomo ricco. Ma per Caronte la ricerca dell’assassino si rivela peggio di un astruso rompicapo. Nessuno a conti fatti parla o dice la verità. E la spavalderia unita alla presunzione può costare molto cara. L’assassino avrà spazio e modo di colpire ancora e ci vorranno accurate indagini e brillanti deduzioni per arrivare a incastrarlo. La matta di Milano è la prima indagine o meglio il primo viaggio della nostalgia, ma rigorosamente noir, del commissario Caronte ambientata nei luoghi della Mala anni ’60. Un romanzo vintage che richiama alla mente del lettore alcune atmosfere celebrate negli scritti di Testori, Simonetta e del grande Scerbanenco.
La matta di Milano – Alessandro Reali
Patrizia Debicke