Raul Montanari, in libreria con La seconda porta, Baldini + Castoldi Editore, ha cortesemente accettato di rispondere a qualche nostra domanda sul suo libro e sulla narrativa al tempo del Covid.
Nei tuoi romanzi c’è spesso l’incontro –scontro fra un adulto e alcuni adolescenti, tanto che io considero i tuoi libri anche dei romanzi di formazione. Perché in quest’ultimo hai scelto di narrare di adolescenti arrivati in Italia con i barconi?
La narrativa dovrebbe sempre cercare di raccontare il generale dentro il particolare, proporre storie che abbiano alle spalle qualcosa di più grande. La “seconda porta” della casa del protagonista, attraverso la quale entra un adolescente magrebino in fuga, è l’emblema dell’Italia, porta di accesso impossibile da chiudere in faccia ai migranti.
Il protagonista Milo, un pubblicitario di successo che si occupa di campagne sociali, prova una sorta di supremazia “etica” sul suo socio Pietro, che si occupa invece delle campagne normali, quelle “che portano soldi”. E’ solo una mia impressione, almeno all’inizio del romanzo?
L’atteggiamento di Milo somiglia a quello di uno scrittore adorato dalla critica che però vende poco, davanti a un collega che non è artisticamente alla sua altezza ma piace al pubblico. Per fortuna, però, l’enorme carica di autoironia di Milo (ai limiti dell’autodenigrazione) gli impedisce di diventare antipatico: più che un benefattore e un guru della comunicazione progressista, lui ha finito per considerarsi un procacciatore di alibi per chi vuole sentirsi buono e avere la coscienza a posto. È il tema etico alla base di tutto il libro: è davvero possibile fare del bene, nelle piccole cose e in quelle grandi?
La porta segreta che si trova nel nuovo appartamento che Milo acquista, non è forse un varco attraverso il quale si intrufola non solo Adam, ma anche tutti i pensieri negativi e il senso di insoddisfazione di Milo?
La porta è un simbolo della nostra ossessione di controllo. Noi facciamo la guardia a tutti gli accessi da cui possono arrivarci imprevisti: il nostro corpo, le nostre emozioni, il nostro lavoro, la nostra posizione nella società… ma ce n’è sempre uno che rimane sguarnito e da lì l’inatteso si fa strada. Non è detto che sia un male. La vita di Milo, prima dello sconvolgimento che viene a portargli Adam, che vita era? Irrigidita, ripetitiva, percorsa da crepe profonde (i sensi di colpa e di inadeguatezza, l’insonnia, l’alcol, il vizio notturno di cercare video atroci nel deep web, la sfiducia nel proprio lavoro, la mancata paternità, il rapporto inesistente con la famiglia…). Quando arriva Adam, arriva l’avventura! E la vita di Milo, finalmente, si rimescola e prende una nuova direzione.
Milo compie un doppio tradimento nei confronti dell’amico Luca Pandoro: non gli racconta la storia di Adam e non gli rivela che è nascosto a casa sua. Luca è forse l’unico personaggio visceralmente buono nel romanzo: essere traditi è forse il destino di tutti i buoni?
È verissimo quello che dici. Aggiungerei che Milo è un traditore nato. Oltre all’amico tradisce la sua ex moglie quando questa gli chiede di avere un figlio, tradisce la fiducia del suo socio nell’agenzia pubblicitaria, tradisce lo stesso Adam quando la storia si avvia verso il finale che non vogliamo rivelare. Tradisce Vera, la giovane architetta di cui si sta innamorando, quando le nasconde la presenza di Adam, ma prima ancora quando mortifica l’orgoglio professionale della ragazza perché lui vuole ben altro da lei. D’altronde ha tradito anzitutto se stesso, i suoi ideali di quando era ragazzo, ciò per cui ha studiato e lavorato.
E’ incredibile come Milo non si ponga mai dei dubbi sulla storia di Adam: è il suo senso di paternità mancato a renderlo, a tratti, così ingenuo?
Certamente sì, però la storia di Adam mi sembra anche molto verosimile. In un certo senso si potrebbe dire che nella Seconda porta la narrazione procede al ritmo con cui Milo scopre le bugie (poche ma fondamentali) che Adam gli ha raccontato: sono queste rivelazioni progressive a introdurre le svolte, i colpi di scena. A parte questo, l’omosessualità di Adam crea fra lui e Milo una relazione asimmetrica: Milo vede in Adam il figlio che non ha avuto, Adam vede in Milo (almeno all’inizio) l’ideale di un amante maturo, affascinante, duro ma protettivo. Sono come due che vorrebbero abbracciarsi ma non ci riescono, afferrano l’aria.
Il personaggio di Rick Velardi ormai è una conoscenza fissa per i tuoi lettori, ma in quest’ultimo libro ha un compito davvero sgradevole: gli hai affidato le sorti di Adam. Perché a lui?
Velardi è un personaggio così particolare che è stato definito in molti modi. Anzitutto è un detective anomalo, perché non è mai il protagonista delle storie: interviene solo da un certo momento in avanti ed è sempre descritto dall’esterno, non sappiamo nulla dei suoi pensieri. Sembra che venga da un altro pianeta. È un deus ex machina capace di risolvere i nodi “noir” delle vicende, ma non risolve mai quelli esistenziali del protagonista: addirittura li aggrava, li mette a nudo. Quando è comparso la prima volta nel 2009, nel romanzo Strane cose, domani che considero uno dei miei migliori, non pensavo che sarebbe tornato. La sua originalità sta nel fatto che combina due aspetti contraddittori. Da una parte sembra dotato di qualità davvero divine, come onniscienza e onnipresenza. Dall’altra è un dio improbabile, comico e quasi grottesco (quell’impermeabile, la salsa di soia in tasca, il tic che lo tormenta…), un dio minore, diciamo. È il vicino di casa che tutti vorremmo avere, o forse il fratello maggiore, quello che ci risolve i problemi, ma con qualcosa di misterioso e inafferrabile. Nemmeno io so chi è Velardi… non so nemmeno da dove è arrivato! Una curiosità: compare anche nel romanzo Nero a Milano del mio caro amico Romano De Marco.
E’ abbastanza sintomatico che Milo desideri raccontare subito la vicenda di Adam non a Vera, di cui si sta innamorando, ma alla ex compagna Elisa: è come se volesse dirle “vedi, potevo essere un buon padre.”
Hai ragione. Credo che il momento in cui Milo, esausto dopo tutte le emozioni che ha provato, prende il telefono e fa il numero di Elisa sia forse una delle cose più belle del libro, perché è un momento di verità. Prima di sentirsi libero di amare Vera, Milo deve chiudere i conti con questo passato tenace, ostinato, che gli è rimasto attaccato addosso.
Al posto di Milo, avresti denunciato Adam?
No, mi sarei comportato proprio come lui. In generale, per me immaginare un protagonista significa mettermi nella sua situazione, come in un gioco di ruolo o in un set di realtà virtuale, e domandarmi: io cosa farei? Il protagonista delle storie che scrivo sono sempre io, il divertimento è proprio quello di mettermi alla prova infilandomi dentro corpi, identità, vite che non sono la mia. D’altronde si è detto che chi non legge vive solo la propria vita, mentre chi legge vive tutte le vite dei personaggi che trova nei libri. Vale anche per chi scrive.
Milo aiuta economicamente Adam, in fondo si tratta di una paternità “a distanza”. C’è spazio in lui, adesso, per un figlio?
Milo non avrà mai un figlio. Come me, d’altronde. Si accontenterà di fare il padre con i giovani creativi della sua agenzia, come io lo faccio con i giovani autori che da più di vent’anni vengono alla mia scuola di scrittura.
Secondo te esistono uomini che non hanno avuto figli che sentono, al pari delle donne, un senso di vuoto, di inadeguatezza, di mancanza di stimoli per il futuro?
Questa è una bellissima domanda. Per quello che ho osservato in me stesso e negli altri non c’è paragone fra l’impulso alla maternità e quello alla paternità. Il corpo di una donna è, sul piano biologico e fisiologico, una macchina per riprodurre. È impossibile che una donna non senta profondamente, dentro di sé, questo senso del corpo che la spinge a immaginare la maternità fin da bambina, a fare i conti con essa – il che non toglie che possa scegliere di non essere madre. Direi che invece i maschi si dividono in due gruppi: la maggior parte di loro ha un desidero di paternità più o meno intenso, ma ce ne sono molti che fanno figli solo perché questo è il desiderio della donna che hanno accanto… salvo poi magari innamorarsi del cucciolo.
Tu dici che la letteratura dovrebbe sempre cercare di raccontare il generale dentro il particolare, pensi che questa situazione di pandemia con annessa quarantena, possa in qualche modo cambiare la prospettiva? Intendo, in una situazione in cui tutti stiamo più o meno vivendo la stessa realtà, non sarebbe normale per la narrativa concentrarsi sul particolare?
Sì, nel senso che siamo abbastanza sicuri che quello che capita a uno di noi capita a tutti. Quindi è più che mai verosimile l’idea che raccontare semplicemente qualcosa di personale abbia un valore rappresentativo generale.
In che modo questa pandemia interferirà con la narrativa? Sarà possibile scrivere facendo finta che non sia successo? E cosa si potrebbe scrivere di un periodo di isolamento generale? Saggi? Libri intimisti? Gialli della camera chiusa? Drammi famigliari? (A parte ovviamente libri di cucina, poi di dieta, e sulle terapie di disintossicazione da sudoku?).
Come sai, spesso gli scrittori dicono che viviamo in un tempo fin troppo pacifico, fatto di quotidianità, e che sono da invidiare gli autori che hanno avuto da raccontare una guerra. Bene, noi ora stiamo vivendo qualcosa di simile a una guerra, ma la situazione che si è creata è curiosamente “poco narrativa”. È una guerra a bassa intensità, che non ha niente di spettacolare: niente azioni eroiche (tranne quelle che avvengono negli ospedali), niente abissi di vigliaccheria (al massimo un uomo che esce di casa pur essendo positivo al virus). Gli spunti narrativi sono ridotti, anche se interessanti: si può raccontare l’amore ai tempi del virus, con l’impedimento a vedersi; l’inferno dei condominii, già luoghi orribili in tempi normali, ora infettati non solo dal virus ma dal controllo reciproco ossessivo, le spie, l’odio che levita fra i vicini di casa… Naturalmente ci sarà chi sfornerà i soliti romanzi distopici, immaginando un virus molto più letale oppure la trasformazione definitiva della società in dittatura, come la stiamo in parte sperimentando ora.
Una cosa mi colpisce: da tempo si parla della difficoltà per il narratore di cogliere il presente, data la rapidità con cui ormai la realtà si trasforma. Infatti molti romanzi usciti in questi anni sono ambientati nel passato o nel futuro, entrambe stagioni più disponibili (una perché è fissata per sempre, l’altra perché è docile all’immaginazione). Ecco: in questo momento il presente si è fermato. Ha assunto un carattere fisso e anche un po’ arcaico, come un soggetto che finalmente smette di muoversi e si lascia fotografare.
All’interno dell’intervista, la foto di Raul Montanari in primo piano è di @Alessandra Merisio
MilanoNera ringrazia Raul Montanari per la disponibilità