Mino Milani – La pentola



Mino Milani
Mino Milani
Effigie
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Mino Milani – scrittore narratore come si proclama orgogliosamente, tra i migliori in Italia come gli viene riconosciuto da critici autorevoli da OdB a D’Orrico, basti pensare a “Fantasma d’amore”, trasposto in film da Dino Risi con una splendente e repellente Romy Schneider e Marcello Mastroianni – anche nel 2019 in occasione di San Siro, patrono della sua città, ha pubblicato un agile volumetto. Protagonista è il commissario della Regia Imperial Delegazione di Polizia Melchiorre Ferrari, giunto alla sua 14ª indagine dalla prima nel 1983. Inverno 1855-56, Pavia sotto la neve è una specie di Vigata lombardo-asburgica con l’agente Steiner-Catarella dall’italiano tedeschizzato (ja sighnor commissario), il Delegato Ziller (l’equivalente del nostro Signori e Quistori) che soprattutto non vuole grane di natura politica (i mazziniani), un improbabile Ferrari-Montalbano, claudicante, non bello né atletico, leale ma non austriacante, disincantato ma non cinico, investigatore intelligente e acuto, dotato di compassione verso le vittime e anche i colpevoli.
In commissariato si presenta un’anziana contessa con una pentola in testa perché dice di sentire le voci di folletti a cui racconta favole per tenerli buoni. La bella contessina sua nipote si affanna per riportarla a casa. Un aitante assistente del “medico dei pazzi” vorrebbe internarla in istituto. Un omino grigio col biroccio, che forse non c’è, è lo snodo per la soluzione dell’enigma quando la contessa muore di cause naturali. Però a Ferrari qualcosa non torna. Non persuaso, ha un bel dirsi: “sta’ legér [stai tranquillo, oggi diremmo staisereno], Melchiorre…”, subito aggiungendo: “però… Cioè la più forte congiunzione avversativa”. Un dubbio per l’investigatore e per il lettore.
Nel pantheon di Milani ci sono scrittori narratori quali Salgari, Stevenson, London, Chandler. È lecito chiedersi che c’azzecca il duro Marlowe con lo zoppetto Ferrari che la sera a casa mette “le vecchie ma comodissime ciabatte”. Sembrano avere poco in comune. Il primo beve whisky e il secondo parchi bicchierini di cognac, i loro dialoghi sono secchi (alla Hemingway) come colpi di pistola, ma soprattutto, come Milani dice del poliziotto pavese, e vale anche per il detective americano: “è un uomo che crede nel suo lavoro e nella legge, uno che cerca di agire con la ragione, mai con la prevaricazione”. Seguendo un imperativo categorico: fai quel che devi, accada quel che può. Una lunga strada che può portare da Catarella e Steiner a Kant. (La postfazione, di chi scrive, si può tranquillamente evitare, non a caso è post).
Fernando Rotondo

Fernando Rotondo

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