Non è successo niente



giuseppe aloe
Non è successo niente
perrone
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Libro di difficile attribuzione di genere. Sì è un noir, ci sono i morti uccisi barbaramente. Non basta. E’ piuttosto una riflessione sulla vita che dura per tutto il romanzo, tenuta da un ottantenne, ex direttore di un istituto di igiene mentale nel quale, durante la sua permanenza per un consulto, vengono uccisi sei pazienti ed un gatto.
La presenza dell’anziano professore diventa quindi indispensabile perché si intuisce che di fronte ad una situazione di questo genere non è possibile procedere con la logica tradizionale, occorre qualcuno che interpreti, che aiuti gli inquirenti a trovare brandelli di indizi in quel borbottio insensato e continuo, nelle azioni sconclusionate e repentine dei malati mentali, quasi tutti irrecuperabili, che vivono nell’istituto e che il professore conosce bene per la maggior parte. La vicinanza spirituale che lo lega ai dementi e ai follie, le strade labirintiche e tortuose che l’uomo cerca di intraprendere seguendo un’acuta capacità di immedesimazione e di intuizione, si mescolano con la rievocazione dei suoi dolori personali, con le riflessioni lievi o pesanti sul senso della vita, sulla vecchiaia.
Sulla follia, soprattutto. “Il primo regalo che ci fa il mondo è questo: demenza e morte. Siamo tutti candidati perfetti”. Sembra quasi casuale il fatto che una persona imbocchi una strada oppure l’altra, da una parte una vita normale (ma è possibile definirla così?), dall’altra la follia nelle sue diverse forme estreme, catatonia, furore, delirio, ossessioni. E in questo palcoscenico che mescola tutti i suoi ignari attori, malati e sani, si svolge l’indagine, lenta e riflessiva del professore, assolutamente coerente nei suoi salti logici, tanto da far sembrare gli interventi sporadici del commissario che segue la vicenda, assolutamente fuori luogo nella loro strutturazione pragmatica e razionale. Nei dialoghi fra i due sembra infatti che sia il commissario quello che usa categorie, idee, linguaggi assolutamente inutili e fuori posto. E’ infatti l’anziano psichiatra che scoprirà ciò che è accaduto attraverso le irrazionali manifestazioni dei malati.
Tutto il romanzo è scritto in prima persona con una capacità linguistica rara in un esordiente, che riesce a rendere la figura del professore molto più lieve e profonda allo stesso tempo, con le sue riflessioni, a volte estemporanee, i suoi ricordi, i suoi commenti. Ferrosa vecchiaia viene definita la sua età dallo psichiatra e già diventa diversa da una descrizione di giunture mal funzionanti. “Ora me ne vado per i miei camminamenti e mi sento leggero”. E la sensazione di leggerezza si trasmette alla figura del protagonista.
E per rispondere all’incertezza iniziale sul genere di questo romanzo, possiamo lasciare aperta la questione, affermando semplicemente che è un libro da leggere e da rileggere.

silvia torrealta

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