Ben tornato Marcello e ben trovato. Un cambio di rotta drastico il tuo, non perché scegli un nuovo secolo, il 1600, per ambientare la tua storia, ma perché proprio il 1600 – sia in Italia, che in Europa e altrove – viene considerato il secolo più sanguinario e terribile dal punto di vista di obnubilazione di idee. Forse il peggiore in assoluto del secondo millennio. Perché questa scelta?
La scelta del Seicento è stata forzata. Prima di tutto perché, dopo tanto Medioevo, volevo scrivere un thriller dedicato al mondo misterioso dei librai e dei tipografi. La meccanica del torchio, gli artigiani stampatori e la loro maestria nel realizzare illustrazioni su carta mi affascina dai tempi in cui studiavo le incisioni apocalittiche di Dürer. Credo sia questo il contesto culturale che ha raccolto, in piena età moderna, il retaggio degli amanuensi medievali e dei monaci miniaturisti (che pur ancora esistono). Un contesto in cui non ho resistito a inscenare un delitto efferatissimo! E poi si trattava di raccogliere una sfida: dimostrare cioè che quanto di più terribile viene usualmente attribuito al Medioevo – l’inquisizione, la caccia alle streghe e la peste – giunge al suo apice proprio nel corso dei Seicento. Si trattava in sostanza di abbattere un luogo comune prima che la mia narrativa ci sprofondasse dentro.
Un notevole salto d’immagine che mi fa quasi pensare a un abbandono della formula fiction favolistica “dumasiana”.
Al contrario. Dumas resta uno dei miei fari di riferimento. Non avrei mai potuto scrivere Il marchio dell’inquisitore se non avessi letto i Tre moschettieri. E, come di consueto, non ho rinunciato a mettere in scena un gioco di cardinali ombrosi e di frati tutt’altro che rassicuranti, in una Roma che è prima di tutto lo scrigno in cui si racchiude il Vaticano. D’altro canto il Seicento mi forniva l’opportunità di romanzare maggiormente, di creare un intreccio arioso e ancor più intricato di quelli a cui sono solito. Forse anche un po’ più elegante, l’ammetto. Del resto siamo nel secolo di Cyrano de Bergerac.
Siamo a Roma, all’inizio del XVII secolo, in una città dominata dalle congregazioni religiose, ma anche invasa da vizio e turpitudine. Intorno un territorio italiano diviso, conteso tra Spagna, stato della Chiesa e Venezia, mentre il resto dell’Europa – impero compreso – è sfiancato dalle guerre. Questo è lo scenario in cui il nuovo Simoni che, dico io, guarda a un pubblico più disincantato e smaliziato, ambienta il suo Il marchio dell’inquisitore. Intanto perché un inquisitore come protagonista?
Volevo tratteggiare la figura di un investigatore vissuto in un’epoca pre-poliziesca: un’epoca, cioè, in cui gli investigatori di professione ancora non esistono (il primo fu Vidocq, tra Sette e Ottocento). Mi serviva quindi un escamotage che mi consentisse di “inventare”, in pieno Seicento, la storia di un detective in grado di guidare delle operazioni di polizia e di applicare un metodo d’indagine che non fosse improvvisato. La mia propensione a parlare di ambienti monastici e di eresia mi ha orientato verso la figura di un inquisitore commissarius. Una scelta molto stuzzicante, dal mio punto di vista, dal momento che mi permetteva di descrivere il mondo del Sant’Uffizio e della Congregazione dell’Indice all’indomani del rogo di Giordano Bruno.
Il tuo Francesco Capiferro, realmente vissuto, fu anche un uomo scomodo, osannato, contestato, accusato e solo tardivamente riabilitato. Quali dei tuoi personaggi ti piacciono al punto di attribuir loro la tua preferenza?
Mi piacciono tutti, dal più acuto al più scellerato, altrimenti non li sceglierei certo per inserirli tra le pagine dei miei romanzi. Il caso di Capiferro è emblematico. Non appena mi sono imbattuto nella sua figura ho capito che sarebbe stato il John Watson perfetto per la storia che avevo in mente: un frate domenicano con i baffi da moschettiere e il vezzo di fumare la pipa. Cosa poter chiedere di più?
I tuoi punti di riferimento letterari, se ce ne sono stati, immagino siano da ricercare oltralpe piuttosto che in Italia, oppure?
Leggete la nota storica che ho scritto in fondo al mio romanzo: lì troverete svelato ogni mistero.
Cosa vuol dire per un appassionato bibliotecario come te spalancare le porte e i segreti della Biblioteca Vaticana?
Vuol dire far spalancare gli occhi dei miei lettori su uno dei labirinti più suggestivi della storia dell’umanità: un luogo proibito, su cui ancora aleggiano molte leggende, nonché lo scenario perfetto per commettere un delitto. Per descrivere questo mondo – questo inedito girone infernale – mi sono documentato a fondo, in maniera quasi ossessiva, al punto di rischiare di diventare un personaggio del mio romanzo.
Non hai ancora svelato tutti i segreti di Girolamo Svampa e quindi contiamo su un suo ritorno sulle scene. Una curiosità. Lo lascerai sempre in questa sua Roma com’era, ben diversa e “bucolicheggiante” dall’attuale caos capitolino, o lo manderai in missione altrove?
Credo che lo Svampa sia, ad oggi, il mio personaggio letterario meglio riuscito. Profondo, misterioso, scostante, nasconde più umanità di quanto lasci trasparire. È soltanto all’inizio del suo cammino, e sarà destinato a visitare inferni sempre più profondi.
Qui il link alla recensione: http://www.milanonera.com/il-marchio-dellinquisitore/
Marcello Simoni è uno dei grandi ospiti del Noir In Festival 2016
L’appuntamento è per venerdì̀ 9 dicembre ore 17.00.
Como, Sala Bianca.
Presenta Maurizio Bono
Qui il programma e tutti gli appuntamenti del Noir In Festival – Premio Scerbanenco 2016
http://www.noirfest.com/