Finis terrae, così potrebbe essere definito il desolato borgo romagnolo di Afunde (Afundé, affogato, nel gergo delle “valli”), epicentro narrativo del visionario romanzo di Matteo Cavezzali (Il labirinto delle nebbie, Mondadori, luglio 2022). Terra sì, ma ancora per poco, fin quando le acque del Delta non vinceranno la loro millenaria battaglia strappandola alla misera umanità che vi risiede. Sorge su una delle tante ramificazioni in cui il Po si sfrangia penetrando verso l’interno, «un vero labirinto d’acqua e di terra viscosa», costruita da bracconieri e pescatori di frodo. L’umidità permea ogni cosa, i muri e le ossa degli abitanti, e le case affondano sbilenche, ogni giorno di più, in una malvagia quanto inesorabile subsidenza che avrà presto ragione di un paese costruito sul fango.
Qui arriva, nel primo autunno del 1919, un giovane ispettore del Corpo della Guardia Regia per la pubblica sicurezza, inviato da Bologna per indagare sul brutale omicidio di una fanciulla, sgozzata senza pietà e marchiata con un misterioso simbolo. Bruno Fosco è appena tornato dal fronte, irrimediabilmente segnato da quel dramma bellico contro natura, le sue speranze di uomo per di più strappate da una recente tragedia famigliare.
E ad Afunde la sua afflizione trova uno speculare riscontro nella vita miserevole dei suoi abitanti, quasi soltanto donne ormai, poiché la guerra si è portata via mariti, figli, padri, fratelli. Colpevoli, agli occhi dello Stato, di aver abbracciato la fede sovversiva e per questo condannabili alla coscrizione obbligatoria.
Contrastato dall’ostinata omertà dei paesani, tormentato da incubi notturni dall’angoscia più che reale, Fosco inciampa in un cadavere dopo l’altro – una seconda fanciulla, il figlio di un possidente locale – fino a quando la sparizione di una bambina bellissima, « con due guancette vellutate e lo sguardo fiero», non lo costringe a inseguire l’omicida nella palude, in una caccia dai contorni onirici.
Dosato tra realtà e finzione con abile consapevolezza, il romanzo prende spunto dalle cronache del tempo: l’esistenza in terra di Romagna, sul finire del XIX secolo, di oltre cento associazioni sovversive e il rinvenimento, ai margini delle valli e proprio nel 1919, del cadavere di una ragazza sgozzata.
Attorno a questi accadimenti Matteo Cavezzali intesse una catturante trama di brutalità e sopraffazione, coraggio e disperazione, sensualità e innocenza, superstizione e magia.
Un «romanzo palustre», lo definisce il suo autore, in cui la palude – né terra, né mare –assurge al ruolo di primo protagonista. Dispensatrice di vita, poiché elargisce anguille saporite ed erbe taumaturgiche, ma anche di morte, infestata com’è di crudeli vettrici malariche. Che artiglia il passante in una morsa di solitudine, eppure lo stordisce con una musica segreta fatta di versi e fruscii. Un luogo sapientemente evocato da Cavezzali, con pennellate di luce «senza consolazione» e repentine coltri di bruma. Asilo ancestrale ed eterno di miti e superstizioni.
E forse nell’ininterrotto fluttuare, dei personaggi e del racconto, tra crudo realismo e straniante visionarietà sta la cifra più vibrante del romanzo. Che ritengo perciò ascrivibile a quel mondo “gotico padano” che ha fatto grande il cinema di Pupi Avati, aperto in uno sguardo tra lucido e incantato e percorso da brividi macabri.
L’uroboro, simbolo mistico del ciclico alternarsi di vita e morte con cui l’omicida marchia le vittime, la ritualità pagana delle donne di paese riunite a cerchio a intonare ipnotiche cantilene, la fede nei presagi che trasforma nebbia e comete in altrettanti segni di divinazione, si affiancano così e si contrappongono alla perizia antica nella macellazione del maiale, alla conoscenza della risalita delle anguille, all’abilità di animare il fuoco da piramidi di legnetti.
In quella terra arcaica dove «gli attrezzi dell’uomo sono inganni inventati per poter dominare e comprendere la natura», Cavezzali dà vita a figure indimenticabili, donne soprattutto, tra cui primeggia Ardea. L’indomita, coraggiosa, enigmatica Ardea che perfino «in mezzo ai maiali e all’odore di sangue e di miseria, aveva il portamento di una regina gotica. Oggetto di desiderio e fascinazione, custode di un sapere antico, vestale della Madre Terra.
Fosco la segue e la insegue, ahimè consumato dalle memorie del fronte che gli hanno scavato l’anima e gli impediscono di distinguere tra lucida realtà e visione. E la sua caccia all’assassino attraverso la palude diviene uno sconfortato tentativo di strappare vita alla morte perché, si sa, «ogni respiro, ogni istante in cui siamo vivi è un dono che rubiamo alla morte».
Un romanzo ammaliante, dal colore intenso come il limonium che sa bere acqua salata o come il volo dei fenicotteri che tinge il cielo di rosa, da leggere come una favola nera o un profondo insegnamento di vita.
L’autore
MATTEO CAVEZZALI è autore dei romanzi Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini (minimum fax, 2018) e Nero d’inferno (Mondadori, 2019) in cui racconta la figura di Mario Buda, anarchico italiano emigrato negli Stati Uniti che fece saltare in aria Wall Street. Ha scritto anche Supercamper. Un viaggio nella saggezza del mondo (Laterza, 2021) e A morte il tiranno (HarperCollins, 2021) da cui è stato tratto l’omonimo podcast. Ha vinto il Premio Comisso e il Premio Volponi. È ideatore e direttore artistico del festival letterario ScrittuRa di Ravenna. Ha realizzato il podcast Bruno Neri: calciatore partigiano per RaiPlay Sound.