Il peccato



Francisco Gonzáles Ledesma
Il peccato
giano
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Ricardo Méndez questa volta lo spediscono a Madrid. E non per far luce su un delitto. Figuriamoci, è considerato il peggiore tra i pessimi del comando supremo di Barcellona che, vulgata populis, solo la pietà dei superiori e le leggi democratiche gli salvano l’uniforme, il distintivo e la pistola. Nella capitale deve far sì che la morte di un anziano nella casa dei piaceri di Doña Lorena Dosantos non faccia parlare giornali, casalinghe e mosche da bar. Méndez parte e comprende che il caso è molto più esteso. Non si tratta esattamente della fine (in)gloriosa di un erotomane avanti con gli anni, ma dell’inizio piuttosto. Di una storia che intreccia truffe, droga, quantità di denaro impossibile a contarsi, violenze di ogni genere, profondità e bestialità (meglio se concentrate sugli organi sessuali), amore filiale-materno-paterno concesso e strapazzato, fantasmi che fanno rumore. Il catalogo è troppo abulimico per dimagrire in due righe. Insomma, parte la vita con tutte le sue possibili direzioni ubriache. E Méndez c’è dentro senza alcun desiderio di uscirne finché una parvenza di giustizia farà la sua comparsa. Perché sarà anche vero che lui, poliziotto da strada, non gode di buona reputazione tra le stanze del commisariato. Ma è ancor più vero che non si è ancora lasciato trascinare a fondo dalla spazzatura che qualunque tipo di mondo è capace di confezionargli addosso.

Con Il Peccato, Francisco Gonzáles Ledesma cuce un romanzo ricco di pieghe e sottopieghe. Quasi una struttura barocca se mai il barocco abbia avuto a che fare col noir. Ma non c’è filo che alla fine non trovi il suo buco e non c’è ago che non lo porti a fare il suo giretto tra le sottane delle femmine e le patte dei maschi. Romanzo dalla decisa gradazione sessuale, in cui l’universo femminile è formato più che altro da carne con rotondità e orifizi su cui quello maschile ha volontà di potenza e predominio. L’universo di Ledesma è da sempre più nero e sboccato di quello di Vázquez Montalbán. Un “cane mangia cane” senza una dimensione politica a cui aggrapparsi per dare radici al proprio agire.

Anche in questo romanzo la morte non è solo la fine. Né  la pena che sostituisce una mancata giustizia legale. E neanche semplice vendetta. La morte è una presenza che prende corpo da sola arrivando con un carico scenografico più teatrale possibile. La morte arriva dove e perché c’è la vita, tra attori che sembrano usciti dal più lisergico Ellroy. Qui si “pasteggia” a sangue, sperma e feci senza mai cadere nello splatter e nel grand guignol. Bisogna essere dei maestri per proseguire scrivendo senza farsi cogliere dagli schizzi. E Ledesma lo è. Come il suo Méndez. Spesso più pulito di un mazzo di calle bianche.

corrado ori tanzi

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