Il verdetto dei dodici



raymond postgate
Il verdetto dei dodici
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Una giuria composta da dodici cittadini, un presidente, due avvocati, un cancelliere, un giudice e l’imputata. Quest’ultima, Mrs Rosalie van Beer è accusata di aver ucciso Philip, il nipote di 11 anni di cui era tutrice, la cui morte avrebbe fatto felici le tasche di una serie di persone. Ma soprattutto le sue. Il movente la conduce sul banco degli imputati. Il modus operandi: avrebbe messo della polvere di edera sull’insalata. Un’arma di rarissima conoscenza, ma l’avvelenamento è scientificamente provato.

Il verdetto dei dodici di Raymond Postgate (scritto nel 1940), come ci fa sapere il risvolto di copertina, è uno dei mystery più celebri da rientrare nella più alta top list dei thriller di tutti i tempi. Il motivo è presto detto. Perché si tratta di un giallo che prova quanto la verità giudiziaria che si esprime in una sentenza o in un verdetto sia solo la faccia del dado che può uscire sul tavolo di un processo. Una parte di tante altre facce che sono rimaste nascoste per ragioni che non hanno nulla a che fare con la veridicità di cui sono portatrici.

Postgate, giornalista, uno dei fondatori del partito comunista britannico, ci mostra come la squadra dei giurati, per quanto scelta con giudizioso pluralismo sociale, alla fin fine scelga una soluzione piuttosto che l’altra in virtù di meccanismi personalistici che pesano come e più della sola valutazione dei fatti analizzati e delle prove emerse.

Ciascuno assolve o condanna la donna perché intende assolvere se stesso. I dati della sua vita passata, il profilo della sua personalità, l’empatia o l’antipatia che ella provoca su ciascuno di loro sono i veri elementi che determinano il giudizio. Ciascuno ha un proprio scheletro che penzola nell’armadio. E Mrs van Beer lo scuote o lo lascia in pace. Che, lo si voglia o no, si gira sempre e solo attorno a pochi, ma concreti quesiti: sono anche io così o non lo sono? In genere mi comporto come lei o agisco in maniera diversa? E quindi: se la condanno mi condanno?

E se a questo meccanismo psicologico aggiungiamo un finale stupefacente, ecco che il capolavoro è cucinato e confezionato come una torta Chantilly uscita dal forno di un mastro pasticcere. Mangiarla sfama e appaga. Non lasciarne neanche una briciola sul piatto significa non aver temuto i sensi di colpa. Eccellente.

corrado ori tanzi

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