Intervista a Roberto Carboni

QUANDO LA FOLLIA FA RUMORE
La vita professionale di Roberto Carboni – premio Nettuno d’oro alla cultura della città di Bologna, uno dei tanti riconoscimenti ottenuti per una scrittura di originalissima oscurità – ha percorso per diciassette anni un doppio binario: taxista del turno di notte, ha incontrato una ricca e variegata umanità, per poi infilarla di diritto tra le sue pagine di scrittore di giorno. Ora si dedica in esclusiva all’attività di autore, accompagnandola con l’insegnamento in laboratori di ‘scrittura creativa dinamica’ (la definizione è sua e tra poco gliene chiederò ragione) e allo studio, condotto con rigore professionale, della criminologia forense e degli aspetti psicologici della comunicazione verbale.

51OVd-9wuwL._SY346_Roberto, cominciamo proprio dai riconoscimenti che, dal 2015, fioccano sulla tua scrivania: il Nettuno d’oro alla cultura, appunto nel 2015, seguito a ruota con cadenza annuale o addirittura biennale dal premio speciale Fondazione Marconi Radio Days (2016), dal Premio Qualità della città di Chiari (2016), dal Garfagnana in giallo – Sezione Romanzi Editi (2017) e, pochi giorni fa, dal Premio Barliario nell’ambito del SalerNoir Festival IV Edizione. Che impressione ti lasciano questi riconoscimenti, anche in considerazione del fatto che finora hai pubblicato con case editrici di qualità ma appartenenti per forza distributiva alla piccola editoria?
Ultimamente credo sempre più che la classificazione non sia tra libri di genere, ma in romanzi buoni e romanzi che non funzionano. Struttura, Trama e Narrazione. Sono i tre grandi blocchi: ovviamente l’anello più debole condiziona gli altri due.
Allo stesso modo, dividere gli editori grandi dai piccoli, per uno scrittore non ha molto senso. Esistono editori buoni o meno. Ancora più in dettaglio, esistono contratti validi, contratti così così e contratti capestro. La Frilli è una buona famiglia, in gamba e combattiva. Che ti fa sentire il suo calore. Ci vogliamo bene, indipendentemente dal lavoro.
Riguardo i miei scritti, all’inizio non sapevo come i temi che tratto sarebbero stati accolti dal pubblico. Perché, di fatto, spesso sono i miei temi che trattano me. Creature affatto gentili.
Sono il primo a rimanerne sconvolto. Non sono un sadico, altrimenti non trasmetterei tensione, solo sgomento. Sono un fobico e quindi laureato in inquietudini e quando scrivo scene violente, scendo in sala per controllare se ho chiuso ENTRAMBE le porte blindate. Esatto, ne ho due in batteria, con in mezzo l’antifurto, per capirci.
D’altronde, queste erano le storie che volevo raccontare (o che loro volevano raccontare me). Senza mediazioni. Due primi posti su due concorsi cui ho partecipato, con l’ultimo romanzo, Dalla Morte in Poi, e di importanza come il Garfagnana e il SalerNoir, sono una conferma che quell’entità che è il romanzo – Tema, Trama e Voce narratoria – è piaciuta.
Per come la vedo io, il terzo ingrediente è il più importante. E ogni scrittore dovrebbe passare tutta la sua esistenza ad affinarlo. Entrare dentro le parole, e poi dentro le frasi, davvero fino alla loro doppia foce, etimologica e inconscia: simbolica. E’ un’esperienza sciamanica. Perché le parole sono il nostro cervello, sono l’interfaccia più performante della nostra attività cerebrale. Delimitano il perimetro della nostra incorporeità.

Parliamo dei tuoi temi ispiratori. Fin dal tuo esordio e con poche eccezioni, hai mostrato un interesse prevalente per la degenerazione psichica mettendo in scena una galleria di protagonisti di statura assoluta e verosimile, il cui disagio sociale va spesso cercato nelle importanti patologie che li affliggono: paranoia, schizofrenia, psicopatia. Questa tua scelta, e pongo la domanda con sorriso provocatorio, nasconde forse un interesse morboso?
Morboso, bruciante, irriverente e scorretto. Nel senso più nobile di questi termini, già di per sé tra i più nobili del vocabolario. Sono innamorato degli esseri umani e del loro comportamento. Coerenze, ma soprattutto incoerenze, mi fanno perdere la testa. Porterei loro ogni giorno stupendi mazzi di fiori fradici. Rubati al cimitero dopo una notte di pioggia.
Sono perdutamente innamorato della comunicazione. La psicologia, l’antropologia, l’etologia, la musica, la scrittura, l’arte, la simbologia…tutto quello che riguarda l’uomo. Luci e ombre. Perché la parte buia della luna non è meno luna della parte in luce. Così come il nostro inconscio, il nostro rimosso, i nostri istinti inconfessabili…siamo comunque noi. Noi crediamo che questi aspetti ci siano nemici, ma loro sono naturali. Sono la nostra parte più antica. Siamo noi a essergli ostili, in quanto tentiamo di nasconderci ciò che siamo.
Siamo pasticceri cui qualcuno, molto perfido, ha detto che hanno il diabete.
E il peggio è che gli abbiamo creduto sulla parola.
La vergogna è ciò che leggiamo negli occhi degli altri. Il pudore è ciò che ci frena dall’interno. E a volte è sacrosanto, ma per lo più è un fuoco amico, sterminatore della gioia di vivere. E di osare.
Mioddio, parlo come Osho.

Da tempo, tu organizzi e metti in scena presentazioni dei tuoi romanzi che si rivelano autentici e magnetici spettacoli, cui il pubblico risponde con entusiastica adesione. Io stessa, coinvolta da te in un ‘dialogo sulla follia’ per la presentazione del tuo Dalla morte in poi, ne ho riportato un’impressione indelebile. Siamo attratti dalla follia, sembrerebbe la conclusione inevitabile. Perché?
Perché la sentiamo dentro di noi, ma non ci azzardiamo a nutrirla. Antropologicamente, forse per la forte connotazione cristiana di cui siamo anche inconsciamente intrisi.
Senza bisogno di spostarsi troppo, per i protestanti va già meglio, o gli anglicani. Sono meno afflitti dal complesso di colpa. Ah, Sigmund (ndr Freud), lui sì che avrebbe dovuto pagare i diritti di copyright, al Vaticano.
Il professor Galimberti dice che l’arte e l’amore sono luoghi della follia. In quanto esulano dal ragionamento logico. Sono descrivibili solo con le metafore. E appunto la parola metafora, lo saprete benissimo, significa: che sta al posto di…
La follia è il luogo dell’arte perché la normalità e sterile, e da lei non nasce nulla.
Siamo attratti dalla follia perché siamo animali non ancora stabilizzati. Abbiamo il coccige ma non più la coda. Abbiamo l’istinto omicida ma anche i sensi di colpa. Siamo un crogiolo di forze che tirano e altre che spingono. Pulsioni. Non per niente, la nevrosi è definita come il risultato della battaglia tra ciò che vorremmo fare (spinta dell’Es) e ciò che invece la società e le convenzioni ci impongono (pressione del Super-Io).
Non siamo, come nel romanzo di Stevenson, a tratti il Dottor Jekyll e a tratti Mister Hide. Magari! Che benedizione sarebbe. Siamo Jekyll e Hide insieme, allo stesso tempo. O meglio, siamo il menisco bistrattato, che li divide, mentre litigano. Mentre uno dice FALLO! e l’altro grida: NON AZZARDARTI A FARLO O TE NE FARO’ PENTIRE IN ETERNO!
E noi povere bestie, lì in mezzo, stupiti e smarriti. Tra altri sette miliardi e mezzo di esseri umani stupiti e smarriti.
Questo sentirci fili che penzolano sospesi nel nulla, è la nostra vera comunione. Da qui nasce l’amore. Il desiderio bruciante di completarci. Trovare qualcuno che ci ami. E che, proprio con l’amore, ci faccia scoprire la nostra follia.
(Chiedo scusa. A volte mi scordo di essere uno scrittore Noir.)
E in questo coraggio (chiamiamola mancanza di pudore) sta essenzialmente il mio lavoro. Spesso gli aspiranti scrittori pensano che per buttare giù una buona storia, bisogna osare. Spingendo sul gas. Più omicidi, più sangue. Non è così. Perché ciò che narriamo lasci il segno, dobbiamo fare in maniera che anche il lettore se lo senta dentro. Vivo e autentico. Che lavori ai fianchi il suo inconscio.
Il difficile, quindi, è lasciare andare il freno a mano del pudore. Avere il coraggio di raccontare ciò che normalmente farebbe arrossire, o zittire, Pongo l’orangutan. Leggete il Lamento di Portnoy. O provate ad avere il coraggio di farvi venire in mente un’idea come Lolita. Poi ditemi se la notte riuscite a dormire sonni tranquilli, sapendo che quelle cose faranno il giro del mondo. E farlo con naturalezza: in questo modo accade il miracolo della comunione. In realtà così ci accorgiamo che tutti noi abbiamo le stesse paure, angosce, voglie e pulsioni. Spregiudicatezze immorali. Da questa comunicazione spontanea, nasce una vicinanza. Un calore. Oppure una repulsione, nel caso non fossimo pronti a scoprire che le pulsioni ci abitano, e quindi ci vivono. Ma dal punto di vista sociale, possono essere sconvenienti. E per questo le ficchiamo direttamente nell’Ombra del nostro inconscio.
Sappiate che quello è il luogo in cui fanno più danni. Fingere che non esistono, è come costruire le fondamenta di un asilo con rifiuti radioattivi, e coprire poi il tutto con elementi di architettura biologica ed ecosostenibile.
Facciamocene una ragione, siamo portatori sani di angoscia.
Quasi sani, grazie al Cielo.

27867772_1807776732579964_3279086269575195982_nLo stesso impatto, immediato ed entusiasta, che ricevi dai tuoi lettori lo ottieni anche dagli allievi dei tuoi laboratori di ‘scrittura creativa dinamica’. Quali sono i tuoi assi nella manica? Forse i principi della programmazione neuro linguistica che hai approfondito con tanto rigore?
Sono, e mi fa ridere pensarlo, un invasato che invasa. Ma onesto e sincero, quasi una brava persona. Sono il primo a subire la bellezza della scrittura. E il maremoto di un inconscio a briglie sciolte.
Ho una personalità caotica e scrivo storie caotiche. Per questo sono stato costretto ad affinare un linguaggio cristallino. Altrimenti sarebbe stato solo caos. Per il lettore, la follia che descrivo deve essere immediatamente visiva e fruibile. Deve sembrare tutto facile. Credo che il segreto sia l’uso di parole semplici in contesti inaspettati. Quando usiamo parole difficili, il lettore è costretto a fermarsi per capire quello che gli stiamo dicendo. E tutto il sogno, puff!, sparisce.
Usando parole semplici in contesti inaspettati, possiamo essere leggeri e profondi al tempo stesso. E immediati.
Al‘il pazzo’ aveva quarantanove primavere sulla carta d’identità e cento inverni negli occhi.
Basta. E’ fulmineo e non occorre altro.
Ma pensate quanti processi deve fare il nostro cervello per tradurlo in emozioni!
La Voce dello scrittore, cioè il suo modo di raccogliere le parole e costruire frasi, è un’energia impalpabile ma indiscutibile. Fa capire al lettore dopo poche righe che sta leggendo Simenon, o Nabokov, o Fante, o la Hart, o Ellroy.
La Voce dà corporeità ai sogni. Perché la finzione è un affare tremendamente serio.
La chiamo Scrittura Creativa Dinamica, perché Creatività e Dinamicità sono i due ingredienti fondamentali. Con la fantasia costruiamo storie dallo sviluppo sorprendente, con la dinamicità le rendiamo veloci e (si spera) irresistibili.

L’ultima domanda riguarda per forza la tua voce di scrittore, molto caratterizzata: ritmo serrato, frasi brevi, vocaboli semplici ma affilati, metafore spesso dissacranti. Come si scrive di tensione e, per citare un tema che di recente ci ha coinvolto a Bologna nell’ambito della rassegna ‘Paura sotto la pelle’ organizzato da noi del Laboratorio della Controrealtà, come si genera la paura nel lettore?
La paura è una forma d’intelligenza. Coalizza e spinge a razionalizzare, concretizzare e quindi risolvere problemi. E non serve allo scrittore.
L’angoscia è un crollo delle nostre capacità. E’ ciò che prova il bambino, la notte, quando si sveglia nella sua cameretta al buio. Ed è solo. Spariti mamma e papà. L’orsetto caduto a terra. Senza protezioni né punti di riferimento. L’angoscia fa franare l’adulto e recupera la fragilità psichica infantile. L’angoscia, sì, che serve allo scrittore! E’ il serbatoio di petrolio psichico da cui attingere. Insondabile e infiammabile. Se il lettore precipita nella vulnerabilità infantile, possiamo farlo sognare più facilmente, e più facilmente sarà disposto a credere ai mostri dell’anima. Che poi in realtà esistono veramente, solo che l’adulto spesso li rifiuta. O finge perfino a se stesso di rifiutarli.
Fino a quando non subentra uno psicoterapeuta illuminato, o uno scrittore noir senza scrupoli.
La tensione è il collante di tutta la storia. Che si tratti di un racconto d’amore o di morte, non cambia. Le domande devono essere continue e pressanti. “Riuscirà l’assassino a uccidere la propria vittima?” Non è poi così diversa da “Riusciranno gli innamorati, osteggiati dalle famiglie, a coronare il loro sogno d’amore?”
Questa di solito è la domanda drammaturgica della storia. Che si risolve nell’ultima pagina.
Io adopero anche domande intermedie, che si risolvono ogni trenta pagine circa. Riuscirà l’assassino a uccidere la vittima? Riuscirà l’assassino a non farsi scoprire dalla propria moglie? Riuscirà l’assassino a non farsi scoprire dal datore di lavoro, e poi dal commissario che ha iniziato l’indagine? E così via.
Faccio in modo che il lettore si ponga continuamente domande, domande, domande, sempre più pressanti e senza tregua.
Un ribollire continuo.
E poi c’è la tensione dei capitoli. Per me, meglio se brevissimi. Da una a tre pagine. E ogni capitolo deve porre interrogativi. E non si chiude mai con la risoluzione della domanda, ma con una domanda ancor più impellente, in modo da invogliare il lettore a proseguire al capitolo successivo. E poi ancora. E poi ancora.
In fin dei conti stiamo cercando di coccolarlo, sedurlo (con la parte femminile), conquistarlo (con la parte maschile). E prendergli un po’ il respiro.
Infine c’è la tensione della frase. Ogni frase deve contenere una domanda, e per creare tensione bisogna rispondere il più tardi possibile a questa domanda. A volte infischiandosene della decenza che imporrebbe l’italiano. Perché noi stiamo puntando a far innamorare il lettore. E per la causa dell’amore, tutto è concesso.
Per esempio: A Borgo Panigale, sui gradini di un negozio di giocattoli di fronte al centro commerciale…
(la sentite come risuona la domanda? Cosa? Cos’è accaduto?)
…fu rinvenuto il primo piede.
BUM! Funziona.
Se la scriviamo come sarebbe logico pensarla, invece, tutta la tensione sparisce:
Il primo piede fu rinvenuto a Borgo Panigale, sui gradini di un negozio di giocattoli di fronte al centro commerciale.
Bleah! E lunga, appiccicosa e inutile. Invece che creare tensione, la svilisce. Perché risponde alla domanda senza nemmeno porla. E poi continua inutilmente.
Infine, senza mai fine, ci sono un milione di altre delizie irresistibili. Come la Sospensione dell’Incredulità, la Concatenazione della Tensione, le Descrizioni Dinamiche, i Dialoghi da Guerriglia, l’uso corretto degli avverbi. I verbi che sostituiscono gli aggettivi…
Le parole diventano sogni. I sogni non finiscono mai, fino alla morte. E Dalla morte in poi, magari, che spero sarà una lettura gradita.
Grazie per il tempo che mi avete dedicato.

Caro Roberto Carboni, grazie a te per averci illuminato sulle motivazioni, la passione e la tecnica della tua scrittura. Ma soprattutto per aver voluto condividere un percorso verso la scoperta e l’accettazione della nostra follia.

ROBERTO CARBONI è nato a Bologna e vive sulle colline di Sasso Marconi. Tassista per diciassette anni, attualmente autore e docente di scrittura creativa a tempo pieno.
Nel 2015 è stato premiato con il Nettuno d’oro, il più autorevole riconoscimento a un artista bolognese. Nel 2016 con il premio speciale Fondazione Marconi Radio Days e con il Premio Qualità della città di Chiari. Nel 2017 ha vinto il Garfagnana in giallo – Sezione Romanzi Editi con il romanzo Dalla morte in poi e nel 2018, per la stessa opera, il Premio Barliario nell’ambito del SalerNoir Festival IV Edizione, organizzato dall’Associazione Porto delle Nebbie.
Autore di nove romanzi noir, uscirà a breve per i tipi della Fratelli Frilli Editori il suo decimo, Per i buoni sentimenti rivolgetevi altrove, riedizione in realtà completamente riveduta della sua seconda opera, pubblicata per la prima volta da Dalila Sottani Editrice nel 2010. Con le sue storie noir, tutte ambientate a Bologna, indaga l’animo umano nei suoi abissi più disperati, scuri e corrotti.

Giusy Giulianini

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