Falcones non smentisce la fama di intelligente e straordinario affabulatore.
Per mettere in scena gli avvenimenti del suo secondo romanzo, le 900 e più pagine de La mano di Fatima, si concede ogni malizia, coinvolgendo il lettore e dilatando la storia nell’arco di oltre trent’anni.
Con un avvio magistrale, che ci cala nell’atmosfera tragica della cristianizzazione forzata dei moriscos in Spagna dopo la resa di Granada, introduce il protagonista perfetto, Hernando Ruitz, il bastardo cristiano dagli occhi chiari, il Nazareno come lo chiamano con disprezzo i musulmani, frutto dell’oltraggio brutale perpetrato da un sacerdote cattolico spagnolo su una piccola morisca.
Dopo un’infanzia e una prima giovinezza che lo hanno visto subire le angherie del patrigno, vivere le atrocità della rivolta dei moriscos delle Alpuijarras, il fato sembra offrirgli una vita diversa, la cultura araba, un compito privilegiato, una compagna adorata, una famiglia, ma i nemici sono ovunque e in agguato. Chi credeva sconfitto, tornerà per privarlo degli affetti più cari.
Di rara suggestione le figure femminili che lo fiancheggiano: la madre Aisha, che solo la morte potrà domare restituendole il figlio, Fatima la prima moglie che saprà rinunciare all’amore, Isabel bambina cristiana salvata in passato, ora donna e la seconda moglie, Rafaela, madre dei suoi figli spagnoli.
Ruitz eroe coraggioso e incompreso accetterà il duro compito di agente doppio che lo costringe a fingersi un infame. Nascondendo il suo io, il vero credo, agirà nell’ombra, lasciandosi accusare di aver tradito la sua razza, i suoi fratelli. La guerra di religione, l’ignominia, l’intolleranza affollano le pagine del romanzo perseguitandolo ingiustamente. Solo dopo anni di disonore sarà graziato dal perdono.
“Perchè la convivenza tra i nostri popoli non è stata possibil?” si chiede drammaticamente Hernando Ruitz a poche righe dalla fine.
Forse in futuro, se Dio vorrà, pare volergli suggerire sua moglie, la dolce cattolica Rafaela.